di ROBERTO MAGGI *
Anche le mie olive soffrono il caldo, questo è il terzo autunno consecutivo senza raccolta: comprerò l’olio. E quando la raccolta c’è inizia a fine settembre anziché a novembre come vent’anni fa. D’altra pare non posso aspettarmi alcunché di diverso. Il mio uliveto è la frazione più vicina al mare, dunque più esposta al caldo, dell’uliveto capitalistico impiantato nell’800, forse nella prima metà, dalla famiglia Costa Zenoglio di Chiavari. Uliveto che da Cavi Arenelle saliva fin quasi a S. Giulia ed aveva scopi industriali più che alimentari. L’olio serviva per l’illuminazione, le tessiture e veniva esportato a Marsiglia per la produzione di sapone. Poiché interessava la quantità di prodotto piuttosto che la qualità organolettica gli ulivi erano fitti, così salivano in alto e lasciavano spazio illuminato sulle ‘fasce’ dove i mezzadri coltivavano fave, patate e quant’altro. I cultivar erano evidentemente quelli adatti a quel periodo, più fresco di oggi perché in piena risalita dai freddi della piccola glaciazione sei-settecentesca. Inoltre, vennero scelti in modo di distribuire su più mesi i tempi di raccolta onde fruire razionalmente della forza lavoro disponibile in loco. È chiaro che una coltura così strettamente impostata è particolarmente sensibile alle variazioni della temperatura media. Avessi la forza economica e l’età per rinnovare il mio uliveto lo farei diverso, sia per dislocazione delle piante sia per scelta dei cultivar più adatti alle nuove temperature fra gli oltre 500 che esistono in Italia ed i molti di più nel Mediterraneo.
Riguardo l’orto, anch’esso sofferente per il caldo, dell’amico Getto (l’autore fa riferimento a questo articolo uscito su Piazza Levante), sarebbe interessante sapere cosa si coltivava a Leivi nel Medioevo, quando la temperatura era più calda di oggi. Purtroppo, però temo non sarebbe sufficiente per impiantare colture adatte alle nuove condizioni. Ammettiamo per esempio che fortunate ricerche informino che nel tre-quattrocento si coltivava frumento; a quel punto bisognerebbe conoscere la varietà specifica locale utilizzata, quasi certamente perduta perché successivamente soppiantata da forme più adatte al clima più freddo poi subentrato.
È presumibile che, quando l’agricoltura era una risorsa primaria ed era molto diffusa, i selezionatori di sementi erano numerosi ed in competizione tra loro. Ciò generava un sistema atto ad adattare rapidamente le varietà ai cambiamenti; sistema cronologicamente prescientifico ma di fatto scientifico perché basato su selezione e sperimentazione. Ci si può domandare se oggi le tre multinazionali che detengono il 63% del commercio delle sementi siano più interessate ad appoggiare la lotta (fatta da altri e a parere di molti vana) contro l’aumento della temperatura o a investire in ricerca per l’adattamento.
Se dalla storia locale si passa alla ‘grande’ storia ci sono tragici esempi di danni connessi alla mancanza di ricerca. In epoca staliniana il riconosciuto fondatore della Storia dell’Agricoltura, Nicolaj Vavilov, venne condannato perché cultore della ‘borghese’ genetica delle piante, ed al suo posto l’agricoltura sovietica venne affidata al lamarkiano Trochim Lysenko, il quale sosteneva che le piante non andavano selezionate ma ‘educate’ a produrre di più, come gli umani. Vavilov morì in prigione e l’imposizione di pratiche ideologiche e sostanzialmente ciarlatane ai contadini collettivizzati fu il fattore forse principale delle carestie che colpirono l’Unione Sovietica, prima fra tutte quella terribile ucraina.
*(Archeologo, già Soprintendenza Archeologica della Liguria e docente di Ecologia Preistorica)