di ANTONIO GOZZI
Molti colleghi industriali, letto il mio articolo della settimana scorsa sulla repentina caduta del prezzo dell’energia in Italia e in Europa, mi hanno chiesto: “Ma allora cosa dobbiamo fare? Hanno ancora senso le misure adottate dal Governo anche recentemente, volte a mitigare il prezzo dell’energia per le industrie e a proteggerle da rialzi improvvisi?”.
Le risposte a queste interrogativi devono tenere conto della situazione contingente e della prospettiva ma anche del differenziale che permane comunque, anche in una situazione di prezzi in caduta, tra gli altri Paesi industriali e l’Italia, a sfavore del nostro Paese e della sua industria.
Ma andiamo con ordine.
Prima questione. I prezzi scendono e sono arrivati, per il gas almeno, ai livelli pre-crisi (prima della crisi russo-ucraina). Possono scendere ancora? Teoricamente si, se il rallentamento dell’economia si protrae ancora per molti mesi, rischiando di portarci in recessione come è avvenuto per la Germania.
Le prospettive della congiuntura indicate dai vari centri di ricerca nazionali e internazionali non sono catastrofiche, e taluni indicano il secondo semestre 2024 o il primo 2025 come il momento di svolta. È chiaro che peserà moltissimo l’esito delle crisi internazionali.
In ogni caso, tornando al prezzo dell’energia, non penso che i prezzi possano scendere ancora molto. Se questo è vero, le industrie dovrebbero porsi la domanda se non sia il caso di coprire almeno una parte del loro fabbisogno prospettico con contratti a medio-lungo termine a prezzo fisso in modo da proteggersi da nuovi, improvvisi, rincari.
Lo strumento principe per fare queste coperture è rappresentato dai PPA, Power Purchase Agreement, contratti di energia elettrica rinnovabile a medio-lungo termine (5-10 anni) stipulati tra un produttore di energia rinnovabile e un’impresa industriale.
Questi contratti di energia rinnovabile (fotovoltaico ed eolico in particolare) consentono alle imprese industriali di ridurre la loro impronta carbonica e si negoziano oggi tra il 70 e gli 80 euro a MWh a cui vanno aggiunti all’incirca altri 10 euro di oneri vari (zona, profilo ecc.) per arrivare a un’erogazione simile a quella che si ottiene dalla rete.
Oggi il PUN (prezzo unico nazionale) è intorno agli 85 euro a MWh. Le proiezioni future (forward) sono abbastanza piatte, a testimonianza della difficoltà della previsione, anche se tra gli operatori ci sono aspettative ulteriormente ribassiste sul prezzo del gas, e di riflesso anche dell’energia elettrica.
In questa situazione ha senso un contratto a 10 anni a 90 euro a MWh, che significa comprare l’energia rinnovabile non ancora bilanciata e oggi profilata a 80 euro a MWh?
In una visione di breve periodo probabilmente non tanto.
Ma se invece si ragiona sul medio-lungo, sulla necessità dell’industria di stabilizzare il proprio costo dell’energia proteggendosi da aumenti improvvisi, e sulla necessità di non essere investiti dal forte aumento del costo dei certificati delle CO2 previsto da quasi tutti, allora un contratto di questo tipo, almeno per una quota parte del fabbisogno totale potrebbe essere una scelta ragionevole.
Il tema che resta sullo sfondo è infatti quello di come sia possibile, per le imprese industriali, mitigare il rischio di esplosioni di prezzo dell’energia che si verificano in coincidenza di forti aumenti della domanda dovuti al ciclo economico positivo, e di crisi internazionali come è avvenuto nel 2022 e in parte del 2023.
Lo straordinario rimbalzo dell’economia mondiale post-covid è stato in qualche modo rallentato dalla crisi del gas conseguente all’invasione dell’Ucraina da parte dei russi. Nonostante ciò vi è stata ugualmente una fiammata inflazionistica dovuta soprattutto all’esplosione dei prezzi delle materie prime e dell’energia e dalla difficoltà dell’offerta ad adeguarsi alla domanda nel breve periodo.
I recenti provvedimenti del Governo italiano (electricity release e gas release) devono essere letti in quest’ottica, e cioè di mitigazione del rischio di esplosione improvvisa del prezzo dell’energia.
Si tratta di provvedimenti che, con la messa a disposizione di energia elettrica e di gas a prezzi calmierati per un certo numero di anni, puntano proprio a mitigare il rischio prezzo a termine. Confindustria con il suo Comitato Tecnico Energia ha lavorato molto per il varo di questi provvedimenti. Desta sorpresa allora vedere aziende produttrici di energie rinnovabili iscritte a Confindustria opporsi a questi provvedimenti perché sottrarrebbero risorse necessarie per sussidiare ancora la realizzazione di impianti per energie rinnovabili.
L’altra questione che si pone è il differenziale che continua a permanere, pure in presenza di caduta dei prezzi, tra il prezzo dell’energia per l’industria tedesca e francese a confronto con quello per l’industria italiana.
Questo differenziale è oggi spiegabile per quanto riguarda la Germania (la Francia continua ad avere il grande vantaggio dell’energia nucleare) con la diversità di intensità di interventi che il Governo tedesco sta assumendo a favore dell’industria di quel Paese rispetto alle politiche praticate in Italia.
Su tutti il diverso trattamento relativo al rimborso delle quote di CO2. Sulla base di una direttiva europea i proventi d’asta per la vendita di queste quote devono essere retrocessi alle imprese industriali al fine di favorirne i processi di decarbonizzazione.
Ebbene la Germania restituisce alle sue imprese industriali 3 miliardi di euro all’anno per i prossimi tre anni mentre l’Italia ne restituirà 150 milioni di euro nel 2024 e 300 milioni di euro nel 2025 e 2026.
La sproporzione è clamorosa e come al solito le imprese manifatturiere italiane dovranno fare i miracoli per cercare di rimanere competitive.