di ANTONIO GOZZI
Il vertice che si è tenuto venerdì 20 ottobre a Washington tra Usa e Unione Europea ha visto impegnati il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen e il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel.
Le aspettative fino a qualche tempo fa erano molto elevate perché si pensava che il vertice potesse rappresentare il coronamento di due anni di lavoro preparatorio volto ad allineare le politiche economiche e ambientali delle due sponde dell’Atlantico, a terminare un conflitto commerciale in atto dai tempi della presidenza Trump, a rinsaldare il fronte occidentale contro l’avversario cinese.
In realtà i risultati del vertice sono stati scarsi o nulli.
Nonostante l’evidente necessità di rinforzare i legami euro-atlantici e di presentare un fronte comune alla luce delle gravi sfide lanciate all’Occidente dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e dalle minacce rivolte da più parti a Israele negando il suo diritto di esistere, manca un accordo sulle questioni più importanti.
In particolare, nonostante una proroga del confronto di altri due mesi decisa per ragioni diplomatiche, non si riuscirà a finalizzare un’intesa per costituire un club euro-atlantico sull’acciaio e sull’alluminio sostenibili.
Il progetto, che era unico nel suo genere, mirava a creare un’area euro-atlantica di libero scambio tra Paesi amici (Canada, Usa, Messico e UE) chiudendo la questione irrisolta dei dazi su acciaio e alluminio, retaggio della guerra commerciale USA-UE di trumpiana memoria: a tutt’oggi vige su questi due metalli un dazio del 25% che di fatto ne impedisce le esportazioni dall’Europa verso gli Usa.
Si trattava del primo esperimento di riconfigurazione del commercio internazionale che, dopo gli eccessi della globalizzazione e la messa in pericolo delle catene di fornitura e di scambio a causa del Covid e della guerra, provava a riassestarsi su una più pronunciata collaborazione tra paesi amici. Un ripensamento strategico volto alla ricerca di una sempre più ampia convergenza tra Usa e UE da leggersi anche nell’ottica di una rivalità sistemica con la Cina già delineata in molteplici campi.
Quali saranno le conseguenze del nulla di fatto del vertice di venerdì scorso e quali sono le vere ragioni di questo fallimento?
Purtroppo rimangono differenze profonde tra Usa e Unione Europea.
Gran parte dei politici europei, ad esempio, non ritiene Pechino una minaccia e si concentra sui vantaggi derivanti dagli stretti legami commerciali con la Cina. Pur riconoscendo l’esistenza di problemi causati dalle pratiche commerciali scorrette della Repubblica Popolare Cinese (aiuti di stato, dumping ecc.) essi vedono nell’Organizzazione del Commercio Mondiale (WTO) la sede per risolverli, sebbene questo organismo abbia sempre fallito quando ha tentato di arginare il crescente mercantilismo cinese.
La Germania rimane legata a doppio filo con la Cina attraverso una serie di industrie, soprattutto quella dell’auto. Il 40% del mercato di VW e BMW è cinese e i due colossi dell’auto hanno numerose fabbriche di produzione in quel Paese, ragione per la quale se l’Europa mettesse dazi sull’importazioni di auto elettriche cinesi, come ventilato da Von der Leyen, questi dazi colpirebbero probabilmente anche le case tedesche.
Inoltre sul piano tecnologico ed economico molti europei considerano gli Usa una sfida non meno seria della Cina perché reputano entrambe le potenze responsabili di tensioni commerciali.
Un altro elemento di incomprensione e divergenza è la questione del così detto green deal.
Anche gli Usa di Biden hanno impostato un’azione importante contro il climate change, volendo raggiungere l’obiettivo attraverso specifiche politiche industriali: ridurre le emissioni di gas serra e al contempo promuovere una crescita equa industriale e tecnologica.
Purtroppo gran parte dei politici europei ragiona sul perseguimento di obiettivi sociali (la riduzione delle emissioni) anziché su obiettivi di competizione tecnologica e economica.
Questo tipo di approccio ignora il ruolo della Cina e l’idea di competitività e di sicurezza strategica. Vi è infatti il serio rischio che si creino nuove dipendenze dell’Europa nei confronti della Cina, ad esempio in tema di energie rinnovabili. La Cina controlla infatti la stragrande maggioranza delle materie prime necessarie per l’elettrificazione dei sistemi economici e industriali, a partire dal litio.
In tema di acciaio e alluminio l’atteggiamento europeo pare a dir poco demenziale.
A fronte dell’apertura di Biden, che potrebbe essere l’ultimo presidente americano per il quale le relazioni transatlantiche sono una priorità assoluta, le risposte europee sono state ideologicamente negative. Vediamo perché.
L’amministrazione americana era disponibile a far cadere i dazi su acciaio e alluminio nell’area di ‘amicizia commerciale’ (Usa, Canada, Messico e UE) consentendo alla nostra siderurgia di poter tornare a esportare negli Usa, cosa oggi impossibile a causa dei dazi.
A fronte di questa apertura gli Usa chiedevano di mantenere la misura dei dazi contro la Cina (la così detta 232) a protezione di tutte le economie coinvolte nell’amicizia commerciale, Europa compresa.
Gli europei hanno rifiutato questa impostazione ritenendola incompatibile con le regole del WTO, regole che come abbiamo più volte scritto su queste pagine sono di un’altra era, quella della globalizzazione spinta, e non vengono più rispettate da nessuno. Inoltre c’è un profondo dato di ambiguità su questo punto da parte della Commissione Europea: infatti, mentre si rifiuta la proposta americana perché ritenuta protezionista, con la misura del così detto CIBAM (Carbon tax adjustment) si mettono dazi alle importazioni dei Paesi che non aderiscono al protocollo di Kyoto. Ma qui la giustificazione sta nell’adesione alla religione neopagana dell’ambientalismo contro il climate change, motivazione all’apparenza più nobile rispetto a tradizionali strumenti di difesa commerciale.
In realtà al di là dell’ideologia mercatista e ambientalista ci sono interessi nazionali duri da superare, come quelli della Germania nei confronti della Cina per l’auto che hanno impedito di raggiungere un accordo con gli Usa.
Perdere questa occasione è una stupidaggine assoluta. Se le elezioni presidenziali del 2024 negli Usa le dovesse vincere Trump anche quella finestra di amicizia e cooperazione commerciale aperta da Biden all’Europa si chiuderebbe.
Alla faccia dei soloni della burocrazia guardiana di Bruxelles che si è impadronita della politica europea e che ci farà piangere in futuro calde lacrime sul declino economico e industriale del vecchio continente.