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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

Una marcia dei 40.000 a Bruxelles per far capire all’Europa che se non si cambia l’industria muore

Oggi occorrerebbe far sentire alla politica e alla burocrazia guardiana comunitaria, che sempre di più, isolata nella torre di cristallo, sembra la vera padrona del vapore, la rabbia di tutti quelli che lavorano nelle imprese industriali e che si sentono totalmente abbandonati
La sede del Parlamento Europeo a Bruxelles
La sede del Parlamento Europeo a Bruxelles
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di ANTONIO GOZZI

In giorni nei quali da più parti, anche con molta retorica, si esalta il fatto che siamo tutti europei accomunati dagli stessi ideali e valori, è bene capire di che Europa parliamo e che cosa in Europa non va.

Essere europeisti convinti non significa prendere tutto a scatola chiusa e non vedere gli errori e la presunzione di chi fino ad oggi, avvolto nella cultura del ‘primo della classe’, ha governato a Bruxelles, e si guarda bene dal fare la benché minima autocritica, nonostante tutti gli indicatori economici e industriali ci dicano che se si va avanti così sarà un disastro.

Nessuno in Piazza del Popolo a Roma sabato scorso ha ricordato il grido di dolore di Draghi e la sua pressante richiesta all’Europa di porre in atto cambiamenti radicali se non vuole morire. Eppure era il momento di farlo.

I primi documenti prodotti dalla nuova Commissione Europea a proposito di crisi di competitività e declino dell’industria (la Bussola della Competitività, il primo Omnibus, il Clean Industrial deal e l’Action plan per la siderurgia) sono deludenti e preoccupanti perché pur facendo tutti formale richiamo al Rapporto Draghi e alla sua richiesta di cambiamenti radicali nelle politiche della UE, nessuno di essi contiene in realtà misure concrete capaci davvero di invertire la rotta.

Un meteorite di dimensioni colossali, spedito da oltre Atlantico, è caduto sull’Europa, ma la Commissione continua a comportarsi, a proposito di industria, come se nulla fosse, come se avesse davanti a sé tutto il tempo necessario, quando invece in pochi mesi tutto è cambiato con un’accelerazione pazzesca.

A fronte di questa situazione, se si girano i territori della penisola, si avverte una forte esasperazione tra gli imprenditori italiani alle prese con una fase congiunturale difficile e con la crisi di alcuni settori (automotive e sistema moda in particolare). I nostri industriali vedono nell’iper-regolamentazione asfissiante, negli estremismi ideologici del green deal, nel fatto che nessuno davvero voglia fare autocritica per questi errori, il rischio che nulla cambi davvero, che il declino prosegua e che le distanze con USA e Cina diventino incolmabili.

In un recente intervento in Consiglio Generale di Confindustria a Roma, cercando di interpretare e di dare sbocco a questa esasperazione e frustrazione degli industriali italiani, ho evocato la marcia dei 40.000 che si svolse a Torino nel lontano ottobre del 1980.

Cosa fu la “marcia dei 40.000”?

Furono migliaia di impiegati e di quadri della FIAT che sfilarono nelle strade del capoluogo piemontese in segno di protesta contro i picchettaggi e le violenze sindacali che da 35 giorni impedivano loro di entrare in fabbrica. Fu la rivolta spontanea di una maggioranza, fino ad allora  silenziosa, che non ne poteva più di comportamenti sindacali violenti e di una cultura del conflitto sociale ideologizzata ed estremista, che dipingeva l’impresa come l’impero del male e gli imprenditori come dei delinquenti da tenere sotto stretto controllo fino all’esproprio dei mezzi di produzione.

Quell’imponente manifestazione fu un punto di svolta, e viene indicata spesso come l’inizio di un radicale cambio di relazioni tra grandi aziende e sindacato nel Paese. Fu determinata da un senso di frustrazione e esasperazione profondo di persone che temevano per la sopravvivenza della loro azienda e quindi del loro lavoro.

Un sindacato estremista, spalleggiato dal Partito Comunista Italiano (il segretario del PCI di allora Enrico Berlinguer si recò ai cancelli di Mirafiori per esprimere solidarietà ai picchetti degli operai), subì un vero e proprio shock perché scoprì di non avere più il monopolio della manifestazioni di piazza e perché fu costretto a chiudere in fretta e furia un accordo piuttosto favorevole alla FIAT, dimostrando ancora una volta come l’estremismo conduca all’isolamento e alla sconfitta.

Oggi occorrerebbe una mobilitazione simile, non a Torino ma a Bruxelles, sotto gli uffici della Commissione, per far sentire alla politica e alla burocrazia guardiana comunitaria, che sempre di più, isolata nella torre di cristallo, sembra la vera padrona del vapore, la rabbia di tutti quelli che lavorano nelle imprese industriali e che si sentono totalmente abbandonati.

Abbandonati dalle scelte della UE che hanno guardato esclusivamente ai diritti, all’ambiente, ad una globalizzazione non governata che ha colpito i più deboli e non ha protetto il sistema manifatturiero europeo dalle importazioni sleali e in dumping. Abbandonati dalle politiche della UE che con un approccio tutto ideologico al green deal ha sacrificato il futuro dell’industria, specie quella di base (acciaio, chimica, cemento, carta, vetro ecc.) da cui dipendono tutte le filiere a valle, ad obbiettivi comunque irraggiungibili perché non condivisi dal resto del mondo.

L’Italia è il secondo Paese più industriale d’Europa e l’industria italiana ha quindi titolo per guidare un grande movimento di massa che contrasti con forza le politiche sbagliate della UE.

Bisogna lavorare con i nostri colleghi tedeschi, francesi, spagnoli, polacchi, sloveni, svedesi e con tutti quelli che credono ancora che ci sia un futuro per l’industria europea. Bisogna fare sentire la voce di chi tutti i giorni va in fabbrica e non ne può più.

Combattere sempre, non arrendersi mai!

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