Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. In questa puntata ospitiamo un articolo sulla cosiddetta ‘cancel culture’. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.
di MATTEO MUZIO *
Se n’è parlato tanto, ma spesso si è capito poco, nella vicenda delle rimozioni dei monumenti dalle piazze di molte città americane. Si è detto che era parte di una tendenza culturale, la cosiddetta cancel culture, che in campo artistico e letterario tende a leggere le opere con gli occhi di oggi e quindi a condannarle quasi tutte all’oblio. Se guardiamo con le giuste lenti, la questione appare molto più complessa. Per usare una citazione utilizzata da Arnaldo Testi nel suo ‘I fastidi della Storia’, saggio storico edito dal Mulino, certe statue sono ‘spine di pesce’ conficcate nella gola di una città. Perché quasi tutti i monumenti storici sono il prodotto della vittoria politica di una parte.
Un pericolo che i Padri Fondatori però avevano inteso. Per questo Thomas Jefferson, autore della Dichiarazione d’Indipendenza e terzo presidente, consigliava che la repubblica fosse iconoclasta. Del resto, uno degli atti fondativi degli Stati Uniti d’America fu l’abbattimento della statua di Re Giorgio III a New Yorknel luglio del 1776, come a demolire la legittimità delle pretese della Corona britannica.
Anche per le prime statue del primo presidente George Washington, un deputato del North Carolina, Nathaniel Macon, disse che non avrebbe voluto monumenti “a un uomo di quel partito”, riferendosi alla sua appartenenza ai federalisti, contrapposti ai democratici-repubblicani. E anche in anni più tardi, sono state erette statue con scopi ben precisi: il Lincoln Memorial della capitale Washington, ad esempio, eretto negli anni ’20 sotto la presidenza del repubblicano Warren Harding, venne visto come un memoriale di parte, a cui rispondere, nel 1935, sotto la presidenza del democratico Franklin Delano Roosevelt, con un altro che ricordava Jefferson, che i politici democratici del Profondo Sud segregazionista vedevano come vicino alla teoria dei ‘diritti degli Stati’ contro la protervia del governo federale che aveva osato ‘liberare gli schiavi’.
Insomma, tornava la guerra civile. Ed è proprio qui che Testi smonta uno dei luoghi comuni apparsi sui media nel corso del 2020: la maggior parte delle statue del generale Robert Lee, capo dell’esercito sudista, e di diversi suoi colleghi militari ma anche politici, come il presidente della repubblica schiavista Jefferson Davisnon sono state fatte negli anni immediatamente successivi alla guerra, bensì all’inizio del Novecento, quando il sistema della segregazione razziale si rafforzava.
Anzi, quei memoriali sono quasi tutti in piedi: secondo uno studio del Southern Poverty Law Center, più di duemila monumenti sono ancora in piedi e sono quasi tutti monumenti ai caduti. A cadere sono stati quelli più clamorosamente esposti: come la statua di Lee a Richmond, in Virginia, oppure quella del senatore-ideologo della secessione John C. Calhoun a Charleston, South Carolina, già messa su una lunga colonna negli anni ’10 del Novecento per evitare i vandalismi da parte della numerosa comunità afroamericana.
Ecco che quindi si spiega la citazione scelta da Testi per descrivere queste statue. Erano state erette per ricordare alla comunità afroamericana il loro status di sottomissione permanente, anche dopo la fine della schiavitù. Diverso il discorso per altre statue, tipo quelle del missionario Junipero Serra, santificato da Papa Francesco nel corso della sua visita negli Stati Uniti nel 2015, o quelle di Cristoforo Colombo, abbattute a causa di letture storiche controverse che li vedono come ‘colonialisti’ o addirittura ‘genocidi’. Ogni monumento però porta con sé controversie, compreso quello sui caduti della Seconda Guerra Mondiale, inaugurato a Washington nel 2004, visto come inutilmente trionfalistico. Sulla scorta delle idee di Jefferson però, Testi fa comprendere come uno dei monumenti più apprezzati unanimemente sia il memoriale dei caduti in Vietnam: commissionato da un’associazione di reduci e disegnato da una studentessa di architettura che nel 1981 aveva appena 22 anni, Maya Lin, rappresenta un capolavoro di muto rispetto per i morti di quel conflitto tragico, semplicemente mettendo in fila i nomi di chi ha perso la vita. Niente statue a torso nudo, né cavalieri dunque, solo il nome di chi ha perso la vita per la Patria americana dà un senso autenticamente americano di celebrazione. Come avrebbero voluto i Padri Fondatori.
(* giornalista e ideatore del blog Jefferson – Lettere sull’America)