di ANTONIO GOZZI
Ho più volte sostenuto negli ultimi mesi, anche dalle pagine di ‘Piazza Levante’, di non essere iscritto al partito dei catastrofisti e dei profeti di sventura che vedono una crisi economica grave profilarsi per il 2023 e parlano di recessione e inflazione indomabili. I catastrofisti, purtroppo, abbondano anche nel nostro Paese nell’opinione pubblica e nei media, e in ossequio a una cultura della crisi che alberga da sempre soprattutto nella sinistra marxista, sono incapaci di leggere e di comprendere ciò che succede realmente in Italia e nel mondo, sbagliando sovente e clamorosamente le previsioni.
Sull’Italia si scarica poi un pregiudizio diffuso.
L’immagine che si vuole vendere è di un Paese inaffidabile, con un debito monstre, pieno di mafiosi, incapace di giocare un ruolo internazionale, destinato a un inesorabile declino.
Io non la penso così né sulla congiuntura economica né sul destino inesorabile dell’Italia.
Il mio atteggiamento non deriva da un ottimismo di maniera. È vero che gli imprenditori devono essere per costituzione ottimisti, e io lo sono, e penso che i pessimisti non hanno mai combinato nulla; ma in questo caso cerco di analizzare onestamente la realtà, di non negare evidenze che si manifestano con chiarezza, di ritornare sempre sui ‘fondamentali’ che alla fine sono quelli che contano.
Ebbene, facendo questo esercizio sono mesi che non mi ritrovo in analisi e previsioni molto pessimistiche per il 2023 che provengono da molti centri di ricerca, e lo vado dicendo in riunioni pubbliche e private suscitando in taluni casi molto scetticismo.
A livello di economia internazionale i fondamentali a cui mi riferisco per motivare il mio atteggiamento sono soprattutto i segnali generalizzati di rallentamento dell’inflazione, la caduta del prezzo dell’energia che continuerà nei prossimi mesi e che avevo previsto già a ottobre-novembre 2022, i segnali di risveglio che provengono dalla Cina nonostante la cattiva gestione del Covid in quel Paese.
Se poi veniamo all’Italia e guardiamo con onestà ciò che è avvenuto negli ultimi due anni, 2021 e 2022, vediamo una crescita record che non ha eguali in Europa e nel mondo (el 2022 con un +4% siamo cresciuti più di tutte le altre nazioni europee e più della Cina), una crescita dell’occupazione che non si registrava da tempo (altro che la macelleria sociale preannunciata da Landini), una straordinaria performance della nostra industria manifatturiera segnalata dai dati dei bilanci e dai risultati dell’export e della bilancia commerciale.
In altri termini abbiamo, anche grazie al Governo Draghi, messo fieno in cascina e se ci sarà, come ci sarà, un rallentamento della crescita nell’anno appena iniziato non si devono fare drammi perché ce la caveremo.
Forte di questa visione potete immaginare la soddisfazione che ho provato quando, al recente World Economic Forum di Davos, che i giornali italiani hanno raccontato solo con i giudizi dei pessimisti, il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Gita Gopinath, ha detto in un intervento, ripreso anche dal ‘Financial Times’, che le previsioni verranno riviste al rialzo, e che anziché un anno duro, il 2023 ci riserverà un netto miglioramento delle condizioni economiche rispetto alle più nefaste previsioni.
Ciò detto, senza tema di essere frainteso, scopo del presente articolo è segnalare tre minacce per l’economia e l’industria italiane che provengono tutte e tre dall’Europa.
Queste minacce non si manifestano per un eccesso di europeismo ma al contrario per un deficit di europeismo e di visione e azione comuni che rischiano seriamente di compromettere il destino dell’Unione, e che devono vedere una risposta importante del nostro Paese, del suo Governo e del suo Parlamento, pena un forte ridimensionamento del ruolo e delle prospettive dell’industria italiana.
Le tre minacce che in larga parte si sono già realizzate consistono ne:
- la dinamica degli aiuti di Stato all’industria negli ultimi due anni e la ripartizione degli stessi tra le varie nazioni europee;
- il prezzo dell’energia e in particolare quello per le industrie energivore che a causa della mancata azione comune europea è gravemente diverso nei vari Paesi dell’Unione;
- la revisione delle politiche monetarie della BCE e in particolare la fine del così detto TLTRO (Targetting Longer-Term Refinancing Operation) di cui si dirà oltre.
Primo punto è il tema degli aiuti di Stato all’industria.
Vi è stato un allentamento delle regole europee per l’autorizzazione degli aiuti di Stato da parte della Commissione; ciò a causa prima del Covid e poi della guerra. Ma è del tutto evidente che i paesi senza spazio fiscale (cioè con bilanci deboli e molto indebitati) non possono competere con le risorse messe in campo da Francia e Germania. Lo dimostrano i dati sui 672 miliardi di euro di aiuti di Stato per l’industria approvati dalla Commissione europea negli ultimi due anni, cioè dopo aver allentato le regole: il 53,02% è stato notificato dalla Germania (pari a quasi il 9,24 per cento del PIL), il 24,06% dalla Francia (pari al 6,13 per cento del PIL), il 7,65% dall’Italia (2,69 per cento del PIL).
Il dato è impressionante perché evidenzia il rischio di uno spiazzamento competitivo dell’industria italiana rispetto a quelle tedesca e francese. Questi aiuti si traducono infatti in una disponibilità enormemente diversa da Paese a Paese, a seconda della forza dei rispettivi bilanci nazionali, da mettere a disposizione dell’industria per investimenti, innovazione, ricerca, e cioè tutti quegli elementi che consentono la sostenibilità e la prosperità delle imprese nel lungo periodo.
Come contrastare questa minaccia? Probabilmente all’Italia conviene che si ritorni a regole rigide sugli aiuti di Stato perché i dati che abbiamo citato ci dicono che la situazione odierna favorisce solo Germania e Francia.
Il secondo tema è il prezzo dell’energia per le imprese e in particolare per quelle energivore.
Anche in questo caso i dati sono impressionanti. Siamo riusciti a ricostruire il prezzo dell’energia elettrica pagato dalle industrie siderurgiche nel mese di dicembre 2022 in Germania, Francia, Spagna, Svizzera e Italia. I dati mostrano un grave gap competitivo per le industrie del nostro Paese, e per quelle energivore in particolare, rispetto alle loro concorrenti europee.
Germania 100€ a MWh
Francia 55€ a MWh
Spagna 90€ a MWh
Svizzera 135€ a MWh
Italia 155€ a MWh
Queste differenze sono solo in un caso la conseguenza del diverso mix energetico, ed è il caso della Francia con il suo nucleare. Per gli altri Paesi esse sono spiegabili con interventi di sostegno a favore dei settori industriali evidentemente più importanti di quelli assunti in Italia. È chiaro che, alla lunga, queste differenze del costo dell’energia elettrica per le imprese indotte dagli interventi degli Stati alterano le condizioni competitive e danneggiano irrimediabilmente il concetto di mercato unico europeo, mostrando come il ritardo della Commissione nell’adozione di una politica energetica comune sia un fatto dalle conseguenze molto gravi.
Infine, valutiamo le conseguenze della revisione delle politiche monetarie da parte della BCE e in particolare la fine del TLTRO.
La revisione delle politiche monetarie da parte della BCE, attuata per combattere i forti impulsi inflazionistici che si sono manifestati anche in Europa, ha comportato tra l’altro anche la fine di un importantissimo strumento come quello del citato TLTRO.
Tale strumento (Targetting Longer-Term Refinancing Operation) consentiva alle banche europee dei diversi Stati di fare fondi presso la BCE per finanziare le imprese dei propri paesi. Tale provvista avveniva grazie allo strumento a condizioni di costo uguale per tutti.
Le banche italiane hanno usufruito largamente di questa facility: Intesa per 114 miliardi di euro, Unicredit per 107 miliardi, BPM per 39 miliardi di euro; ma saranno costrette a sostituire lo strumento europeo con altri più costosi perché legati al rating finanziario del nostro Paese, che a causa del suo grande debito pubblico è peggiore di quello di Germania e Francia. Ci sarà in altre parole un aumento del cosiddetto cost of funding per le banche italiane che si ripercuoterà, inevitabilmente, sul costo al quale le imprese industriali italiane potranno approvvigionarsi di denaro dalle banche italiane.
Il combinato disposto di questi tre fattori può rappresentare una grave minaccia per il futuro dell’industria italiana che, come detto, ha mostrato negli ultimi anni un’eccezionale performance e ha rappresentato un punto di forza del Paese.
Bisogna reagire chiedendo ‘più Europa’ non ‘meno Europa’, e politiche comunitarie che non privilegino i Paesi più forti ma che siano invece strumenti di riequilibro.
È nell’industria il futuro dell’Italia!!!!