di ANTONIO GOZZI
Ripartenza o non ripartenza? L’Italia si sta dividendo su questo. In particolare il Dpcm che ha rinviato tutto, o quasi tutto, al 3 di maggio ha gettato nella rabbia e nello sconforto milioni di cittadini italiani titolari o lavoratori di imprese di ogni dimensione che vedono in questo lockdown prolungato (unico in Europa) una serissima minaccia alla sopravvivenza delle proprie attività.
Abbiamo già detto e scritto sulle pagine di ‘Piazza Levante’ e lo ribadiamo con forza che la chiusura delle imprese per troppo tempo è pericolosissima e la desertificazione economica e industriale, conseguenza delle misure adottate, è un rischio mortale per il nostro Paese. Non si riesce a far capire che le imprese, come e più delle persone, sono organismi delicati basati su equilibri spesso fragili e in continua lotta per la sopravvivenza.
Le decisioni politiche (e questa di proseguire il lockdown fino al 3 maggio certamente lo è) sono frutto di una visione, di una cultura, talvolta di un’ideologia. Siamo convinti che, oltre alle comprensibili cautele sanitarie, la decisione di chiudere tutto per così lungo tempo sia anche influenzata da una cultura anti-industriale e anti-impresa che ci interessa descrivere e analizzare perché pensiamo che faccia male all’Italia.
Non vogliamo fare polemica in un momento tragico. Ma rivendichiamo il diritto di esprimere pacatamente ma fermamente le proprie opinioni criticando, se del caso, anche le decisioni prese e la visione che le ispira.
Matteo Renzi ad esempio lo ha fatto sostenendo la necessità di una ripresa rapida. È stato l’unico a mostrare consapevolezza del grave stato dell’economia del Paese ma nessuno lo ha seguito e molti lo hanno coperto di insulti. La sua posizione non ha influito sull’azione di Governo.
Probabilmente all’interno della coalizione che governa oggi l’Italia non tutti hanno questa impostazione negativa, spesso nascosta dietro il parere del Comitato Tecnico-Scientifico. I ministri Gualtieri e Patuanelli ad esempio hanno lavorato con serietà e dedizione a sostegno delle imprese.
Ma spesso è sembrata prevalere una visione lontana dalle reali esigenze delle imprese e spesso insofferente alle loro richieste, interpretata da vari esponenti dei due partiti maggiori al potere (M5S e Pd). Ciò incomincia a creare anche gravi problemi istituzionali.
Le Regioni ormai procedono in ordine sparso. Ci sono Regioni, vedi il caso di Veneto e Liguria, che mal sopportano il blocco totale delle attività voluto dal Governo Conte e autonomamente allentano come possono la morsa della fermata.
Altre come la Lombardia, alle prese con dati ancora molto negativi, vanno in senso opposto non consentendo neanche la riapertura delle librerie pur prevista dall’ultimo Dpcm (ma che differenza c’è tra una libreria e un negozio di abbigliamento?).
Ma ritornando alla visione e alla cultura che influenza e determina l’azione di governo, alla fine essa, come abbiamo detto, è fondamentalmente improntata a un’ideologia anti-impresa e anti-industria largamente diffusa nel nostro Paese, anche se a mio giudizio minoritaria.
I sostenitori di questa visione, avvelenati da un rifiuto intellettuale dell’industria e delle imprese e della loro legittimazione sociale come principali agenti del progresso e dello sviluppo, non riescono ad avere una visione equilibrata delle cose e talvolta assumono atteggiamenti e posizioni paradossali.
Viene ad esempio da più parti fatta una rappresentazione grottesca degli industriali e delle loro organizzazioni rappresentative come insensibili alla salute dei lavoratori e disposti a tutto pur di guadagnare. C’è una specie di voglia esibita di dimostrare che non sono le imprese che comandano, una voglia di rivincita che lambisce anche settori minoritari dei Sindacati e che spinge a rappresentare le imprese come il male assoluto.
Siamo arrivati all’assurdo di un consigliere regionale lombardo del M5S che ha dichiarato ai giornali che la colpa di tutto ciò che è successo a Bergamo e Brescia è di Confindustria e ciò senza darsi cura né di spiegare il perché né il per come.
Questi soggetti (molti dei quali fino a qualche tempo fa infoltivano i ranghi dei no-vax) normalmente rifiutano il confronto razionale, recitano slogan, evocano complotti ma, purtroppo, come detto, sembrano influenzare le decisioni politiche.
Ecco che allora il vero ritardo, probabilmente imputabile anche a questa visione assistenziale (teniamo la gente a casa e diamogli un reddito universale di sopravvivenza non si sa come pagato e da chi), è stato finora di non immaginare una strategia e un piano per la ripresa dimenticandosi che, con il passare del tempo, i costi anche sociali, di una popolazione che non lavora saranno più minacciosi del rischio di contagio.
Basterebbe non essere accecati da un’ideologia estremista, che alla fine vede nel capitalismo l’origine di ogni male, per comprendere che in una situazione nella quale occorre imparare a convivere per lungo tempo con il Covid-19 le imprese, e in particolare quelle industriali, sono e saranno un presidio sanitario formidabile. Vediamo perché.
- È totalmente falsa la rappresentazione delle fabbriche come luoghi dove non si rispettano le regole, dove non c’è alcuna tutela e considerazione delle persone, dove l’unico imperativo è il profitto. Al contrario la stragrande maggioranza delle imprese industriali hanno come obbiettivo prioritario la sicurezza sul posto di lavoro e la tutela della salute delle persone. E ciò perché sono fermamente convinte che il capitale più importante di cui dispongono sia il capitale umano.
- In conseguenza di ciò la stragrande maggioranza delle imprese opera, non a parole ma concretamente con l’attività di tutti i giorni, per implementare modelli e sistemi organizzativi volti alla massima tutela della salute sui luoghi di lavoro e alla protezione dei dipendenti. Supporti legali e normativi (la legge 231 in particolare) da una parte e un’ossessione culturale dall’altra (i siderurgici ad esempio hanno lo slogan mutuato dagli Usa safety first) sostengono questo sforzo concentrato continuamente sull’analisi dei rischi (insiti in qualunque attività umana) e della loro mitigazione.
- Ho sempre sostenuto che le fabbriche con l’adozione del protocollo del 14 marzo Confindustria-Sindacati che prevede regole per lo svolgimento in sicurezza dell’attività lavorativa in tempi di Covid-19, fatte di distanziamenti, presidi, protezioni, revisioni dei layout e degli assetti organizzativi, controlli continui ecc., sono luoghi più sicuri di molti altri. In questo momento all’incirca il 30-35% delle industrie italiane lavorano perché impegnate nelle filiere cosiddette ‘essenziali’ applicando questi protocolli. Nelle imprese che lavorano ci sono stati casi di contagio e trasmissione del virus? Non mi pare anche perché se fosse successo lo sapremmo. Se è così abbiamo la conferma che le fabbriche sono luoghi sicuri e quindi non si capisce perché non sia possibile riaprirle subito. C’è un tema di sicurezza dei trasporti per i lavoratori? Molte imprese sono disponibili a risolverlo a loro spese.
- La convivenza con il Coronavirus sarà lunga e difficile e prevede una capacità, che altri Paesi hanno dimostrato migliore della nostra (fatta eccezione per la Regione Veneto) di rilevazioni e analisi statistiche su campioni ben costruiti di popolazione e ciò al fine di seguire l’evoluzione dell’epidemia, individuare eventuali nuovi focolai, comprendere e attuare le migliori strategie di contenimento. È quella che viene chiamata Fase 2 che ci porterà fino alla scoperta e disponibilità di un vaccino o di una cura risolutiva.
Tamponi e test sierologici saranno gli strumenti principali di questa nuova fase. Una delle maggiori difficoltà sarà trovare, oltre che tamponi e test, i contesti organizzativi idonei e strutturati per gestire queste attività nei confronti di vasti gruppi di popolazione. Cosa di meglio delle imprese come luoghi idonei a queste rilevazioni e dei lavoratori (rigorosamente su base volontaria) come campioni significativi? Il costo, non secondario, di questi test potrebbe essere sostenuto dalle imprese scaricando così le esauste casse dello Stato.
Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, ama ripetere spesso che sarà il lavoro a sconfiggere il Coronavirus. Io penso che saranno le imprese, di cui il lavoro costituisce componente fondamentale, a sconfiggerlo usando tutte le risorse che hanno a disposizione. Il capitalismo può essere anche gentile e inclusivo e noi lavoriamo tutti i giorni per questo.