di ANTONIO GOZZI
La settimana scorsa nel mio editoriale (leggi qui) sostenevo che i grandi produttori di energia, dopo aver realizzato enormi profitti, dovrebbero dimostrarsi un po’ più ‘patriottici’ e rinunciare a qualcosa in favore delle famiglie e delle imprese che sono in sofferenza.
Nei giorni immediatamente successivi, una strana campagna di stampa ha iniziato a suggerire come la struttura e le caratteristiche del business di Duferco dovrebbero “sconsigliare” il suo titolare dall’intervenire nel dibattito in corso sui grandi temi dell’energia. E ciò per la duplice ragione che Duferco gode di ottima salute e che la sua sede si trova in Lussemburgo. Gli argomenti non sono nuovi e riprendono uno dei temi che circolavano contro di me durante la corsa alla presidenza di Confindustria.
Ora è certamente vero che Duferco, nata 46 anni fa in Brasile per l’iniziativa e il coraggio del mio zio materno Bruno Bolfo, poi arrivata in Europa e poi ancora in Italia, gode di ottima salute ed è presente nella produzione e distribuzione di acciaio, nello shipping e nell’energia anche con attività di trading.
Voglio spiegare per l’ennesima volta che Duferco, un grande gruppo internazionale di proprietà italiana, è nato e cresciuto all’estero. Siamo presenti con nostri impianti, centri di distribuzione e uffici in più di 35 Paesi del mondo, e il fatturato dell’azienda è realizzato per almeno i due terzi fuori dall’Italia. È quindi del tutto naturale che la sede non sia in Italia. L’Italia è diventata importante per noi solo più di recente, avendo fatto grandi investimenti industriali nel nostro Paese, più di 400 milioni negli ultimi anni, di cui 250 spesi nel nuovo impianto per la produzione di travi in acciaio a San Zeno Naviglio (Brescia).
Ma tutto questo non spiega perché il suo titolare che rappresenta anche, come presidente di Federacciai, tutti i siderurgici italiani che pagano l’energia elettrica il doppio o il triplo dei concorrenti europei, non possa intervenire in materia di costo dell’energia per difendere gli interessi suoi e degli industriali suoi confratelli.
E qui veniamo al perché ne scrivo.
L’etica imprenditoriale, che mette al primo posto la concentrazione sulla sopravvivenza e sullo sviluppo della propria azienda e sulla sua redditività e creazione di valore per gli azionisti, non può mai, a mio modo di vedere, andare disgiunta dall’etica della responsabilità da parte dell’imprenditore nei confronti dei problemi generali, siano essi del proprio settore o anche della propria comunità e in ultima istanza del proprio Paese.
Prescindendo dalle molte scuole di pensiero che si sono cimentate nella definizione di “classe dirigente”, sono certo che l’imprenditore singolo, e a maggior ragione l’associazione che lo rappresenta, abbiano un ruolo “impegnativo” nelle istituzioni e negli organismi su cui si articola la società. E sono certo che, cosa ancora più importante, essi abbiano un ruolo nella definizione dell’interesse generale nazionale.
Perché questo non può che essere il frutto della negoziazione, dello scambio, fra differenti interessi e differenti priorità, tutti legittimi ma che vanno messi in equilibrio con senso di responsabilità da parte di tutti.
Se questo è vero dovrebbe stupire molto meno la dialettica che esiste in questo momento fra le categorie industriali manifatturiere, grandi consumatrici di energia e chi questa energia produce e vende. E i giornali dovrebbero concentrarsi su questa dialettica piuttosto che sul “diritto ad esprimersi” del presidente di Duferco e di Federacciai.
Cosa ha colpito nella nostra presa di posizione? Il fatto che abbiamo sostenuto e sosteniamo che se l’Italia vuole continuare ad essere un grande Paese industriale manifatturiero deve risolvere il problema del costo dell’energia per tutte le imprese industriali ma soprattutto per le imprese energivore, i cui settori di appartenenza (acciaio, chimica, carta, ceramica, cemento, vetro, fonderie ecc.) costituiscono la base della piramide su cui poggia tutta la manifattura italiana. A proposito di “autonomia strategica”, concetto molto di moda anche grazie al Rapporto Draghi, senza questi settori l’Italia e l’Europa sarebbero molto più deboli.
La competitività internazionale di questi settori dell’industria italiana è messa in pericolo dal costo dell’energia, molto più alto che nel resto d’Europa.
Il costo dell’energia resta abnormemente elevato nonostante la presenza di una serie di istituti che non sono ‘sussidi’, come erroneamente definiti da molta stampa in questi giorni, ma ‘servizi con controprestazioni’ (interrompibilità, interconnector ecc.) ad un sistema elettrico sempre più fragile e squilibrato proprio a causa delle energie rinnovabili, discontinue per definizione.
In una fase così difficile come l’attuale, chiedere ai produttori di energia elettrica e ai “rinnovabilisti” (che loro sì hanno ricevuto in questi anni una montagna di sussidi, oltre 250 miliardi all’orizzonte del 2030) di avere un po’ di spirito patriottico, da classe dirigente appunto, e di dichiararsi aperti al dialogo e alla ricerca di soluzioni di sistema al problema del caro energia non mi pare una bestemmia. Anche se la Duferco guadagna un po’ di soldi con il trading di energia.
Dovrebbe essere poi cosa risaputa ormai a tutti che gli oligopolisti, cioè i produttori di energia elettrica, convenzionale e rinnovabile, hanno un grande potere di influenza sui prezzi, sono cioè come si dice in gergo price maker, mentre i trader sono price taker, cioè non determinano i prezzi ma al massimo li accompagnano, spesso fornendo al sistema liquidità e coperture del rischio.
Ma tant’è, mettere la stella di Davide sulla veste di qualcuno piace sempre, forse per fare confusione informativa e sviare l’opinione pubblica dalla realtà.