di ANTONIO GOZZI
La grave crisi energetica provocata in Europa dall’invasione dell’Ucraina da parte russa e dalla conseguente ‘guerra del gas’, che ha privato il nostro continente dell’approvvigionamento energetico più a buon mercato, mostra con grande evidenza l’incapacità, i conflitti di interesse e lo stato di confusione dell’Europa rispetto a una situazione così complessa.
In particolare mostra tutti i suoi limiti l’approccio estremista e tutto ideologico alla transizione energetica e alla lotta contro il climate change: ‘rinnovabili, rinnovabili, rinnovabili’ il motto declinato per anni dalla Commissione Europea senza una visione olistica capace di tener conto anche dell’economia e del destino dei sistemi industriali del continente.
Un approccio simile prevede che quando le Istituzioni Comunitarie parlano di processi di decarbonizzazione intendono e regolano soltanto le politiche a favore delle energie rinnovabili, demandando ai Paesi membri le politiche relative alle altre tecnologie di decarbonizzazione con ciò stesso ritenendole meno importanti.
Da più parti ci si pone la domanda se sia giusto che le famiglie e l’economia europea, che sono responsabili di meno del 10% delle emissioni di CO2 nel mondo, e la sua industria, che di tali emissioni è responsabile per meno della metà di quel 10%, siano messe in ginocchio da una visione estremista e unilaterale come quella che si è citata.
In realtà appare sempre più chiaro che il tema della decarbonizzazione è inscindibilmente connesso a quello dell’approvvigionamento energetico, e che un argomento così delicato non può consentire estremismi ideologici pena una gravissima crisi dei sistemi industriali del continente.
Le imprese devono poter accedere all’energia a prezzi accessibili perché se ciò non sarà possibile vi saranno o chiusure dolorosissime o un altrettanto doloroso esodo di industrie chiave verso Paesi nei quali l’energia è affidabile e a buon mercato.
Ciò significa che bisogna essere capaci a tenere in equilibrio tre esigenze ugualmente fondamentali: ambiente e lotta al climate change attraverso processi di decarbonizzazione; economicità degli approvvigionamenti energetici per garantire la competitività dei sistemi industriali; sicurezza di questi approvvigionamenti.
Le energie rinnovabili (fotovoltaico ed eolico in particolare) non possono bastare perché sono intermittenti, non programmabili, e coprono solo una parte temporalmente contenuta dei fabbisogni energetici di un Paese o di un continente. Banalizzando, coprono solo le ore in cui c’è il sole e soffia il vento, che grosso modo (anche sommate come se non ci fossero sovrapposizioni tra le ore di sole e quelle in cui soffia il vento, il che non è) non arrivano ad un terzo delle ore in cui c’è bisogno di energia.
Faccio sempre l’esempio di un grande impianto energivoro come un’acciaieria a forno elettrico. Le ore annuali di esercizio sono circa 8000, le energie rinnovabili in Italia ne coprono a mala pena 2000-2500. E per le altre 5500-6000 ore?
È evidente che l’industria energivora di base (siderurgia, chimica, carta, cemento, ceramica, vetro ecc.) per coprire queste ore non coperte dalle rinnovabili ha bisogno di energia di base, base load, decarbonizzata. Energia stabile, continua, possibilmente a costi contenuti.
Ci sono solo due tecnologie che soddisfano questa esigenza: le centrali a gas con l’applicazione delle tecnologie CCUS (Carbon Capture Utilization and Storage) e il nucleare.
Le batterie e gli accumuli non sono capaci di far funzionare grandi impianti energivori come i forni elettrici.
Entrambe queste tecnologie, CCUS e nucleare, sono state per anni scartate e messe all’indice dall’estremismo ideologico ambientalista che ha influenzato non poco moltissime nazioni europee, Germaniae Italia in testa, e la Commissione europea.
Il paradosso è che Germania e Italia sono le due nazioni più industriali del continente.
Di CCUS ho già parlato altre volte e non mi dilungo ma ci tornerò in futuro.
Oggi mi interessa parlare di nucleare perché sono reduce da un importante convegno dell’Associazione Italiana Nucleare, dove come presidente di Federacciai ho fatto una delle relazioni introduttive. Un convegno che ha suscitato un enorme interesse di partecipanti e osservatori che mi è sembrato segno dei tempi.
È parso chiaro a tutti, sulla base dei dati forniti al convegno, che se si vuole uscire dall’emergenza innescata dalla più grave crisi energetica mai vista, che in Europa ha il suo epicentro, e contemporaneamente si vuole proseguire sulla strada della decarbonizzazione non si può fare a meno del nucleare.
Perché il nucleare? Per quattro motivi come ha sostenuto con forza Umberto Minopoli, presidente dell’Associazione Italiana Nucleare.
- Perché già oggi è la prima fonte non carbonica del sistema energetico europeo. Verità nascosta da una lunga retorica falsificatrice (specie nel nostro Paese ) che ha raccontato di un presunto declino del nucleare, il quale pesa invece per il 25% della generazione elettrica del continente, con 122 centrali operative e consente di lanciare ambiziosissimi programmi di decarbonizzazione.
- Perché il nucleare è una fonte energetica continuativa che dà energia per tutte le 8760 ore dell’anno è ed una fonte totalmente decarbonizzata.
- Perché il nucleare è l’unica fonte decarbonizzata che può riuscire a far fronte all’evoluzione dei nostri sistemi, segnati da una sempre maggiore penetrazione degli usi elettrici. E inoltre è la fonte contrassegnata dalla più bassa volatilità e dalla più alta costanza nei costi operativi e di gestione.
- Infine perché il nucleare è la tecnologia non carbonica subito disponibile e caratterizzata dalla più massiccia articolazione di tipologie di impianti ad alta tecnologia e con i maggiori requisiti di sicurezza, efficienza e innovatività tra tutti gli impianti energetici.
In particolare negli ultimi venti anni la tecnologia ha fatto passi enormi in termini di sicurezza, efficienza e economicità, arrivando a quello che si chiama ‘nucleare di terza generazione’ e si prevede di arrivare a fine del prossimo decennio a quella che viene chiamata ‘quarta generazione’.
C’è moltissimo da dire su questa evoluzione tecnologica e sulla presenza dell’industria italiana in questo processo, che dovrebbe sfociare intorno al 2050 nei nuovi reattori a fusione nucleare e non più a fissione. Ci torneremo nei prossimi numeri.
Oggi mi interessa parlarvi dei microreattori nucleari e di una tecnologia americana chiamata Ultra Safe Nuclear, messa in campo da un’azienda di Seattle (Usa) che attiverà il primo di questi reattori nel 2026 a Chalk River, in Canada, e il secondo nel 2027 nell’Illinois.
Si tratta appunto di macchine piccole, dai 10 ai 15 MW, semplici da costruire e da gestire, pensate per alimentare le grandi aziende energivore e la rete.
Quali sono le caratteristiche di questi reattori? Intanto, la sicurezza assoluta. Infatti:
- È scongiurata la fusione del nocciolo, poiché tutti i materiali sono ceramici incapaci di fondere (fusione a 2300°C) e l’Uranio 238, materiale molto meno nobile e meno costoso di quello usato nei reattori a fissione tradizionali, che al crescere della temperatura assorbe i neutroni determinando così lo spegnimento della fissione. Il materiale fissile (appunto U 238) è prodotto in perline da 1 mm di diametro, sigillate in un doppio strato di grafite e di carburo di sicilio, materiale indistruttibile, duro come il diamante.
- Il combustibile esausto, cioè le scorie, resta confinato nel carburo di silicio, materiale che dura più di 200 mila anni.
- I reattori sono di piccolissime dimensioni, predisposti per essere interrati a 6 metri di profondità in trincee o bunker, e sono trasportabili via camion.
- Anche se il reattore dovesse essere oggetto di bombardamenti o di urti accidentali, come ad esempio la caduta di un aereo, il materiale fissile resta confinato all’interno dei cilindretti indistruttibili di carburo di silicio senza disperdere radiottività.
- Il reattore, per il raffreddamento, usa l’elio e non l’acqua che nella maggior parte dei reattori con le alte temperature si trasforma in idrogeno provocando esplosioni.
- La temperatura di funzionamento di questi reattori è di 700°C. Al salire della temperatura la potenza si riduce sino a spegnersi a 1100°C con un margine di circa 1000°C rispetto alla temperatura di fusione del carburo di silicio a 2300°, oltre la quale ci sarebbe la dispersione di radiottività.
Altra caratteristica di questi microreattori è il basso costo associato alla flessibilità. Infatti il costo del MWh è di circa 30€/MWh. Dopo la seconda ricarica di combustibile che avviene tra i 10 e i 20 anni di esercizio il costo del MWh scende a 10€.
Questo tipo di reattore ha bisogno di poca manutenzione e può essere gestito da sale di controllo ‘regionali’ in grado di gestire 10-20 microreattori nella stessa area/distretto. Una centrale con micro-reattore è pensata per essere modulare, standard e prefabbricata in officina (facilmente trasportabile come si è detto); ciò consente di ridurre drasticamente i costi. Inoltre è scalabile per ottenere le potenze necessarie: una centrale con 5 micro-reattori di questo tipo fornisce circa 90 MW elettrici.
Attualmente il reattore a Chalk River in Canada è in fase autorizzativa e i lavori inizieranno nel 2023. La manifattura del combustibile è già in corso nelle fabbriche di Tennessee e Utah. L’accensione è prevista nel 2026.
Se le aspettative si realizzeranno questa tecnologia potrebbe davvero essere rivoluzionaria!