di PAOLO BRICCO *
Perché non possiamo non dirci manifatturieri. La cultura industriale italiana è una componente essenziale della struttura profonda del pensiero, della mutevole composizione sociale, del perimetro delle forze del potere, della membrana che separa il nostro Paese dalle altre esperienze storiche isolandolo da alcuni loro elementi e invece permettendo ad altri di entrare fisicamente nel nostro organismo e di contaminarlo, ora vivificandolo e ora danneggiandolo, ma sempre ibridandolo.
Esiste in Italia una cultura anti-industriale che ha le più differenti sfumature. Permane l’antico pregiudizio pasoliniano basato sulla differenza fra sviluppo e progresso e costruito sulla antitesi fra la fabbrica e la campagna, quest’ultimo vissuta come un luogo quasi arcadico e di naturali innocenze poi perdute.
Scrive Pier Paolo Pasolini in ‘Scritti Corsari’: “Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste due parole sono ‘sviluppo’ e ‘progresso’. La parola ‘sviluppo’ ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di ‘destra’. Chi vuole infatti lo ‘sviluppo’? Cioè chi lo vuole non in astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse economico? È evidente: a volere lo ‘sviluppo’ in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo ‘sviluppo’, in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni superflui. La tecnologia (l’applicazione della scienza) ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di beni superflui sono da parte loro irrazionalmente ed inconsapevolmente d’accordo nel volere lo ‘sviluppo’ (questo ‘sviluppo’). Chi vuole, invece, il ‘progresso’? Lo vogliono coloro che hanno interessi immediatamente da soddisfare, appunto attraverso il ‘progresso’: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e dunque è sfruttato. Quando dico ‘lo vuole’ lo dico in senso autentico e totale (ci può essere anche qualche ‘produttore’ che vuole, oltre tutto, e magari sinceramente, il progresso: ma il suo caso non fa testo). Il ‘progresso’ è dunque una nozione ideale (sociale e politica): la dove lo ‘sviluppo’ è un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una ‘sincronia’ tra ‘sviluppo’ e ‘progresso’, visto che non è concepibile (a quanto pare) un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo”.
La radice della cultura anti-industriale italiana è, appunto, nella dicotomia prospettata da Pasolini. Esiste una sorta di primato morale del poeta delle ‘Ceneri di Gramsci’ sulle tendenze più profonde del Paese che trasversalmente toccano – usando le vecchie categorie politiche della destra e della sinistra – sia la destra che la sinistra. E che, nella post-modernità, si sono saldate con chi vagheggia la possibilità di una netta ricucitura e di una universale simbiosi fra la crescita economica e l’evoluzione umana a impatto zero-a inquinamento zero-a chilometro zero, arrivando a delineare la finalità – o, meglio, l’auspicabilità estetica e allo stesso tempo la necessità etica – di avere una decrescita che sia felice.
Un’altra ragione della cultura anti-industriale italiana è di carattere antropologico. Persiste la sfiducia degli italiani verso i ceti produttivi. La sfiducia è basata sull’associazione dell’attività di impresa alla irresponsabilità pubblica e alla anomia dell’interesse privato. Si tratta di una sfiducia prima di tutto verso la propria anima profonda. In realtà, il tema della irresponsabilità pubblica e dell’anomia dell’interesse privato riguardano tutto il Paese, la sua cultura diffusa e gran parte delle sue comunità, senza distinzioni – se non di intensità – di luoghi geografici.

Invece, nella cultura industriale e nella prassi imprenditoriale è sovente accaduto il contrario: in una realtà storica a elevato tasso di privatizzazione del benessere e di pubblicizzazione del malessere, le imprese – in particolare quando condotte da imprenditori illuminati e segnati dall’idea del bene pubblico – hanno apportato alla vita italiana razionalità economica e propulsione civile, contributo culturale e sostegno all’organismo dello Stato. Scriveva Leopoldo Pirelli: “Sono sempre stato convinto che la libera impresa privata sia pilastro importante di un libero sistema e mezzo insostituibile di progresso sociale. Pur con sfaccettature diverse da paese a paese, in funzione delle situazioni socio-politiche locali, credo di poter affermare che è dappertutto in corso un processo di trasformazione gigantesco e radicale che travalica l’ambito della economia e investe l’intera società, scompaginandone gli assetti tradizionali e mettendola in movimento, alla ricerca di nuovi equilibri. Dappertutto va emergendo una stretta correlazione tra il processo di innovazione e l’iniziativa delle forze imprenditoriali. La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei Paesi in cui si opera: sempre più l’impresa si presenta come luogo di sintesi fra le tendenze orientate al massimo progresso tecnico-economico e le tendenze umane di migliori condizioni di lavoro e di vita”.
Le ragioni di Leopoldo Pirelli rimangono tuttora valide. Per questo non possiamo non dirci manifatturieri. Il problema è la liquidità del pensiero che oggi circonda la fabbrica, soprattutto nella dimensione degli interlocutori degli imprenditori, come i politici e i sindacalisti. In particolare, esiste una involuzione (se non una scomparsa) della antica mentalità della sinistra operaista e di fabbrica, che era incarnata nella prima Repubblica dal Partito Comunista Italiano e dal Partito Socialista Italiano e che era impersonificata dai tre sindacati storici Cgil, Cisl e Uil.
In quella mentalità storica la fabbrica era il luogo del conflitto, ma era anche il luogo della evoluzione degli individui e dei gruppi. Nella fabbrica – non importa se siderurgica o metallurgica, metalmeccanica o automobilistica – si costruivano le professionalità tecniche valide per l’impresa in particolare e per la società in generale. E si operava anche la selezione dei quadri di base, dei quadri intermedi e dei quadri dirigenti. Il personale politico e sindacale proveniva dalla fabbrica.
Quella mentalità non componeva il migliore dei mondi possibili. Il pezzo del Novecento da essa plasmato è stato segnato anche dalla violenza. Una violenza a tratti parossistica. È stato segnato da un elitarismo che, pure in un Paese come il nostro in cui il potere non si esercita ma si condivide, ha avuto tratti di nerboruta gerarchia. È stato segnato da una politicizzazione ampia, diffusa e pervasiva che ha caratterizzato ogni angolo di quel luogo vasto e tragico che è stato il Novecento.
Ma, in ogni caso, quel pensiero aveva un terreno comune basato sulla parola scritta e sui giornali, sulla riflessione individuale e collettiva, sui libri e sul cinema, sul senso di appartenenza a un comune destino fondato sulla civiltà della fabbrica e sulla cultura industriale: gli imprenditori e gli operai, i sindacalisti e i tecnici erano tutte lettere di uno stesso alfabeto. Noi veniamo da quel mondo. E, anche se quel mondo è trasmutato in altro, per tutte queste ragioni non possiamo non dirci manifatturieri.
Il problema da affrontare è che quella forma della manifattura pensata e che quella realtà dei luoghi della manifattura vissuta sono state modificate, dall’interno, dalla transizione della post-modernità in Occidente. Una transizione nella post-modernità che, a sua volta, ha assunto in Italia caratteri specifici.
Questa mentalità si è sfarinata e si è raggrumata in nuove forme di populismo, che considerano – da destra – la fabbrica come un luogo non necessario, dato che la struttura portante della società è composta – nella sua visione e nella sua base politica di riferimento – da artigiani e da professionisti, e che vedono – da sinistra – la fabbrica come un luogo di sfruttamento e di involuzione dell’essere umano e come una fonte di degrado e di contaminazione dell’ambiente.
Questo trasmutazione neo-populistica e questa perdita di senso hanno una base specifica in un errore percettivo e logico comune in chi scambia e sovrappone le fabbriche della manifattura più solida e tradizionale con i centri della logistica sovrannazionale e iper-globalizzata, in cui la flessibilità viene perseguita attraverso l’adozione – legittima, ma spinta all’eccesso e sul filo della legalità – di modelli contrattuali a tempo determinato se non a tempo parzialissimo e di modelli organizzativi in cui la ripetitività chapliniana straniante dei gesti viene segnata dal timbro del controllo tecnologico delle performance e dei comportamenti di chi lavora. Inoltre, la trasmutazione neo-populistica e la perdita di senso vengono condizionante, alimentate e determinate dalle più radicali dell’ambientalismo che partono dal legittimo desiderio di una riduzione dell’impatto delle attività umane sulla salute del pianeta e che però vengono, nelle loro reificazioni politiche e lobbystiche e legislative, piegate dai nuovi interessi della geopolitica della nuova globalizzazione.
Tutto questo incuba semi da cui germinano errori. Ogni interpretazione culturale e politica è legittima. Ma esistono elementi fattuali su cui si può ragionare, che non sono negabili. Soprattutto quando questi elementi fattuali pongono un raccordo stretto fra passato, presente e futuro.
Il primo elemento è la forza stabilizzatrice che ha la fabbrica nell’Occidente composto dagli Stati Uniti e dalla Europa. Non solo nel suo profilo storico. Ma, anche, nella sua proiezione verso il domani.
La demanifatturizzazione degli Stati Uniti – sostenuta nella ideologia dal pensiero liberista quale esito efficientista degli equilibri economici internazionali di lungo periodo e nella geostrategia dal Washington Consensus quale metodo di regolazione culturale e di imposizione politica dello status quo del secolo americano nella prima fase della globalizzazione – è diventata uno dei fattori di maggiore debolezza nelle viscere profonde dell’America.
Donald Trump esiste in quanto soggetto politico ed è stato eletto alla Casa Bianca perché esiste una America segnata dalla fine delle fabbriche, dal trasferimento all’estero fin dagli anni Cinquanta di pezzi interi della manifattura tradizionale e dalla costruzione negli anni Novanta di un modello di Big Tech che ha, come condizione necessaria, nelle catene di forniture controllate dagli Stati Uniti ma attive in Asia: Apple non esisterebbe senza Foxconn.
Il nodo è rappresentato dalla distruzione (sociale) della forza (creatrice) del capitalismo globale negli Stati Uniti: l’impoverimento del ceto medio bianco e la crisi della classe lavoratrice bianca e nera hanno tolto identità e stabilità a strati interi della popolazione. Hanno creato disorientamento e provocato la formazione di grandi sacche di disagio politico e sociale. Hanno trasformato intere agglomerazioni urbane in corpi doloranti interno ai perni – ormai arrugginiti e vuoti – delle gigantesche fabbriche del Novecento del Midwest e del New Jersey, del North Caroline e del New England. Sono anche queste le radici dell’instabilità sociale e della crisi della democrazia rappresentativa americana.
La demanifatturizzazione degli Stati Uniti appare un fenomeno intimo e radicale che, in Europa, ha avuto una portata di minore intensità. Dal punto di vista culturale, la ragione del mercato ha costruito, anche nel Vecchio Continente, la prevalenza di una visione favorevole ai meccanismi della concorrenza e a sfavore della centralità dell’impresa. La prevalenza culturale – almeno nelle élite – di una visione a favore del mercato e di una sorta di speciale naturalità dei suoi meccanismi di funzionamento ha assunti i tratti di una predominanza, anche se non di una egemonia.
Nella realtà effettuale, invece, l’Europa è rimasta il continente delle fabbriche. Il suo paesaggio è ancora questo. Per una ragione quasi morfologica, noi europei non possiamo non dirci manifatturieri. E, questo, nonostante con la caduta del Muro di Berlino l’Europa abbia iniziato, poco alla volta, a perdere centralità nel contesto internazionale della nuova globalizzazione. Il paesaggio industriale della Germania, della Francia e dell’Italia è rimasto incardinato al principio ordinatore degli stabilimenti. Non importa che fossero – che siano – stabilimenti siderurgici, metalmeccanici, automobilistici.
Il male alla manifattura americana è derivato dalla de-manifatturizzazione. Il male alla manifattura europea deriva invece dal pensiero para-religioso della transizione ecologica. Esiste un meccanismo autolesionistico nella scelta ultra-regolatoria che prevede la mutazione delle tecnologie ad alto impatto ambientale e il controllo delle emissioni nell’atmosfera. Nella fisiologia continentale esiste oggi un mix fra economia dell’innovazione e di manifattura pura che rappresenta un unicum. Gli Stati Uniti delle fabbriche non esistono più. La Cina delle fabbriche esiste, sta crescendo, si è imposta con grande lungimiranza nelle reti di controllo delle nuove economie avanzate basate, per esempio, sulle terre rare. Le quali terre rare hanno un impatto sulla natura che è devastante: sia nella fase dell’estrazione sia nella fase della lavorazione. In uno spartito della nuova musica dell’industriale internazionale che sembra essere stato composto da un musicista cinese e non più americano o europeo, ecco che l’Europa sceglie – nell’automotive, ma si tratta soltanto di una parte del tutto – di perdere indipendenza e sovranità tecnologica sposando le tecnologie elettrice a totale controllo cinese. E lo fa con una regolamentazione forte, stringente, asfissiante, calata dall’alto e permeata da una sorta di eticità che toglie ogni argomento a chi non è d’accordo con la nuova religione. Invece gli Stati Uniti, che non hanno nessuna forma di adesione pan-religiosa all’ideologia verde, preferiscono lasciare funzionare il mercato orientando le scelte delle imprese con sussidi diretti e defiscalizzazioni indirette ai gruppi industriali – tutti, inclusi quelli stranieri – che sceglieranno di aprire nuove fabbriche in America. Nelle tecnologie verdi, ma con una libera scelta dell’impresa e non con una coartazione della mentalità e dei meccanismi di mercato come accade invece in Europa.
L’Occidente ha, dunque, scelto di impiantare negli ultimi trent’anni nel proprio corpo tecno-industriale e nel suo corpo politico-sociale una doppia bomba: il dissolvimento delle fabbriche e la trasformazione dell’ambientalismo in religione pagana.
Negli Stati Uniti, segnati dalla riduzione e dall’abbandono delle fabbriche, la finanziarizzazione e la terziarizzazione hanno assimilato il pensiero verde e lo hanno reso una grande opportunità di business, con la graduale e inesorabile invenzione di nuovi strumenti finanziari da proporre commercialmente agli investitori interessati a costruire portafogli verdi, ecosostenibili e in grado di dare un rendimento non soltanto finanziario, ma anche eticizzante. In America – come in tutto l’Occidente – valgono le parole di uno scrittore popolare e visionario come Michael Crichton: “Oggi, una delle religioni più potenti del mondo occidentale è l’ambientalismo. È la religione degli atei urbanizzati. C’è un Eden iniziale, un paradiso, uno stato di grazia e unità con la natura, c’è la caduta dalla grazia in uno stato di inquinamento risultato dell’aver mangiato dall’albero della conoscenza e c’è un giorno del giudizio che verrà per tutti noi. Siamo tutti peccatori di energia, destinati a morire, a meno che non cerchiamo la salvezza, che ora si chiama sostenibilità. La sostenibilità è la salvezza nella chiesa dell’ambiente. Proprio come il cibo biologico è la sua comunione”.
Questa nuova cultura si è diffusa ovunque in Occidente. Ha assunto le più diverse forme. Si è manifestata nelle policy. In Europa il mito della transizione ecologica quale panacea di ogni male è entrata nelle agende politiche e nei programmi delle alte burocrazie. Nelle capitali nazionali del Vecchio Continente. A Strasburgo e a Bruxelles. Nei singoli Paesi e nell’Unione europea.
Il problema è che la transizione ecologica – nella concezione eticista e parareligiosa, geopoliticamente favorevole alla Cina e in grado di aumentare il tasso di perifericità dell’Europa negli equilibri internazionali – è in realtà un gene mutante e corrosivo che molto può distorcere. È una bomba nel corpo di noi tutti. Per questa ragione è in pericolo non soltanto l’Occidente delle fabbriche, ma anche l’Occidente in sé. Per questa ragione, oggi, occorre cogliere la natura civile e politica che attiene alla cultura profonda e radicale dell’industria. Per questa ragione, ancora più di un tempo, non possiamo non dirci manifatturieri.
(* giornalista de ‘Il Sole 24 Ore’)