di ANTONIO GOZZI
Nell’ormai lontano 1982 il Psi convocò a Rimini una conferenza programmatica dal titolo ‘Governare il cambiamento’.
Fu probabilmente uno dei momenti più alti dell’elaborazione del pensiero riformista degli anni di Craxi e fu una straordinaria occasione di dialogo e confronto tra i molti intellettuali che, in quegli anni, soprattutto dalle colonne della rivista ‘MondOperaio’, avevano accompagnato e arricchito il nuovo corso socialista.
Francesco Alberoni, Giuliano Amato, Giorgio Benvenuto, Gianni Baget-Bozzo, Margherita Boniver, Alma Cappiello, Valerio Castronovo, Enzo Cheli, Pietro Craveri, Gianni De Michelis, Rino Formica, Francesco Forte, Luciano Gallino, Massimo Severo Giannini, Gino Giugni, Riccardo Lombardi, Alberto Martinelli, Franco Morganti, Franco Reviglio, Giorgio Ruffolo, Gianni Statera, Giuliano Vassalli, Aldo Visalberghi e molti altri si confrontarono sul tema della modernizzazione del Paese in un mondo che stava cambiando a velocità supersonica.
I contenuti di quel confronto trovarono una straordinaria sintesi nell’intervento di un giovane Claudio Martelli (all’epoca non aveva neanche quarant’anni) che invitò la sinistra a lasciarsi alle spalle “la pietrificata sociologia marxista delle classi” per dare vita ad “un’alleanza riformatrice tra il merito e il bisogno”, fra “coloro che possono agire” mettendo a frutto i propri talenti e “coloro che devono agire” per uscire dall’emarginazione.
Il ragionamento di Martelli partiva dalle trasformazioni allora in atto nelle società occidentali, dai venti di globalizzazione che iniziavano a spirare con forza, dall’imporsi delle nuove tecnologie come potente fattore di modernizzazione e cambiamento, ma anche dall’insorgere di nuovi bisogni e nuove povertà causati da quelle trasformazioni e cambiamenti.
In questo contesto, segnato da crescenti elementi di complessità, rispetto all’assetto del secondo dopoguerra, la riflessione del giovane leader socialista era tesa a declinare il concetto di uguaglianza con quello di equità e in particolare a scoprire una categoria, fino ad allora grandemente sconosciuta a sinistra, quella del merito. Merito come riconoscimento della creatività, dell’impegno, del valore e dei risultati individuali ma anche come strumento essenziale per dare risposte efficienti e inclusive ai bisogni vecchi e nuovi provenienti in particolare dagli strati più deboli della società.
Il principale, anche se non espressamente dichiarato, riferimento culturale del ragionamento di Martelli era quello al liberalismo egualitario del filosofo americano del ’900 John Rawls, un liberalismo attento alla questione dell’uguaglianza e delle pari opportunità e per questo molto in voga negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso tra i democratici americani, un liberalismo il cui tratto distintivo e immancabile era un’idea di giustizia concepita come equità.
Ma è impossibile non pensare che quella riflessione fosse influenzata anche dal concetto di socialismo liberale, dottrina politica elaborata da Carlo Rosselli negli anni ’30 sempre del secolo scorso, ritenuta per molto tempo la conciliazione impossibile tra due sistemi di pensiero apparentemente incompatibili, ma in realtà riferimento, nel secondo dopoguerra, dell’azione di molti governi europei e in particolare di quello laburista britannico tra il 1946 e il 1951, dove un partito socialista aveva ispirato la sua azione alle proposte di due liberal, sia pure in senso anglosassone, come Keynes e Beveridge.
Come ha ricordato recentemente Valdo Spini, anche in Italia, negli anni del centro-sinistra, aveva agito una corrente socialista liberale intesa come sintesi tra il filone socialista di Pietro Nenni e Riccardo Lombardi, quello cattolico di Pasquale Saraceno e quello laico di Ugo La Malfa.
Il tema di un riformismo socialista e liberale sarà al centro di tutta l’elaborazione del Psi negli anni di Craxi.
Perché ritorno ancora una volta sul tema evocato, nel lontano 1982, dell’alleanza riformista tra il merito e il bisogno e sul filone culturale del socialismo liberale o del liberalsocialismo?
Perché sono profondamente convinto che quel pensiero e quelle intuizioni contengano una straordinaria modernità e costituiscano l’unica ancora di salvezza per fare uscire le società occidentali dalla loro grave crisi nella quale populismi e sovranismi vari sembrano avere il sopravvento.
Questa crisi è insieme economica, politica e culturale:
- Economica, perché la centralità e il dominio dell’occidente si sono progressivamente indeboliti dinanzi all’impetuosa crescita di altre aree del mondo, in primis la Cina. La globalizzazione, così benefica per lo sviluppo di nuove economie e l’emancipazione di enormi masse di popolazioni nel mondo, ha colpito duramente in occidente fasce sociali deboli non adeguatamente protette dagli effetti delle trasformazioni in atto;
- Politica, perché il disorientamento provocato in occidente dalle nuove povertà e dalle nuove emarginazioni ha causato una diffusa insoddisfazione e critica nei confronti dell’establishment contestato e messo in discussione da nuovi soggetti politici, di cui Trump è l’emblema, insieme a un comico italiano che con il movimento da lui creato ha preso alle ultime elezioni politiche italiane un terzo dei parlamentari;
- Culturale, perché i venti impetuosi del populismo e del sovranismo hanno generato mostri come la negazione del valore delle competenze, la strumentalizzazione della paura verso i flussi migratori e gli ‘stranieri’ in generale, la convinzione che i politici siano tutti incapaci e/o ladri. In molte situazioni il giustizialismo, con la crescita debordante di un potere distorto e abnorme della magistratura e dei pubblici ministeri, è divenuto condizionante la politica fino a farla rinunciare a sempre più potere a favore dei giudici.
In altre parole non si è riusciti a ‘governare il cambiamento’ come auspicavano i socialisti italiani quasi quaranta anni fa.
L’immensa ricchezza generata dalla crescita dell’economia mondiale e dalla diffusione dello sviluppo in aree del mondo che non l’avevano ancora conosciuto non sembra aver allargato in occidente il benessere, ma al contrario lo ha ristretto concentrando sempre di più la disponibilità di denaro nelle mani di pochi. Le conseguenze della globalizzazione, al contrario, hanno impoverito ceti sociali intermedi che avevano conosciuto negli anni del dopoguerra e successivi un sostanziale miglioramento delle loro condizioni di vita.
In definitiva il capitalismo occidentale non è riuscito ad essere gentile ed inclusivo. Si è trattato molto spesso di un capitalismo soprattutto finanziario, con logiche di ritorni molto alti e molto veloci per azionisti e manager, con stipendi e premi altissimi per i vertici delle imprese e bassi, molto bassi per impiegati e operai. Un capitalismo senz’anima e destinato al fallimento.
In questo contesto i meriti o non sono stati riconosciuti o hanno generato invidia sociale invece che ammirazione. Non si è riusciti a creare una vera situazione di pari opportunità che consentisse ai migliori di ogni strato sociale di emergere e di affermarsi; povertà nuove si sono aggiunte a quelle vecchie, e moltissimi bisogni sono rimasti insoddisfatti.
Non ci sono più, e lo diceva già Martelli nel 1982, gli operai alienati dalla catene di montaggio (oggi le catene di montaggio con la presenza umana non esistono praticamente più grazie ai robot). Ci sono altre figure: i reietti dalle società contemporanee non sono più soltanto i poveri in senso tradizionale, denutriti e disoccupati, bensì gli esclusi dalla conoscenza, o dagli affetti o dalla salute. Cittadini dimezzati e dimenticati, affetti da nuove forme di povertà spirituale, affettiva, culturale oltre che materiale, povertà che amplificano il dolore insito nella condizione umana e ne deprimono la volontà di riscatto.
Nel nostro Paese ad esempio, bloccatosi l’ascensore sociale che aveva caratterizzato gli anni del ‘miracolo italiano’, si è avuta la sensazione che fossero più le relazioni e le influenze, piuttosto che il merito, a garantire il successo individuale, e questa contraddizione è esplosa fragorosamente con la fuga all’estero di decine di migliaia di giovani ben formati nelle nostre scuole e università ma frustrati dall’impossibilità di trovare un lavoro e un reddito consoni alla loro formazione.
O ancora, la tremenda caduta della produttività in Italia rispetto agli altri paesi europei è frutto anche delle rigidità del mercato del lavoro e soprattutto dal fatto che le politiche sindacali sono state sempre pervicacemente contrarie, sia nel settore pubblico che in quello privato, a formule contrattuali capaci di premiare il merito, la qualità del lavoro svolto, la dedizione e la lealtà all’azienda: un egualitarismo senza merito che ha spinto verso il basso le performance del Paese e in forza del quale il riconoscimento dei bisogni è diventato assistenzialismo.
L’Italia ha bisogno, specie in questo tremendo periodo post Covid, di ridefinire i fondamentali, di richiamare la cultura dei diritti ma anche quella dei doveri, di ritrovare una via che non mortifichi i talenti, la creatività, le energie individuali e imprenditoriali, ma al contrario le valorizzi per risolvere i problemi di tutti.
Per fare tutto ciò occorre una visione e una leadership. Non può esistere una leadership senza visione, ma una visione è impossibile senza un solido radicamento ai valori-guida.
Un’alleanza riformista tra meriti e bisogni: potrebbe essere questa visione che manca.
Un’alleanza riformista tra meriti e bisogni vuol dire oggi nella società italiana ridare ai valori del merito, delle pari opportunità, dell’equità, del sostegno ai più deboli da parte di chi è più fortunato o talentuoso, la priorità assoluta.
Nenni diceva che le idee camminano sulle gambe degli uomini. Chi potrebbero essere i protagonisti di questa alleanza riformista per la rinascita del Paese?
Tutti coloro i quali, sia in maggioranza che all’opposizione, si ispirano ad una cultura riformista e liberale e che devono avere la forza di superare divisioni e personalismi creando una grande aggregazione politica e riempiendo quello spazio che sarà una prateria quando finirà la fiera delle balle e gli italiani si saranno riavuti dall’ubriacatura dell’uno vale uno, dei no vax, del no alle grandi opere, della decrescita felice. Vedrete che felicità genererà una caduta del Pil del 10%!!!
Lasciatemi dire da imprenditore che le imprese, veri attori delle trasformazioni economiche, sociali e culturali, possono essere luoghi privilegiati per la costruzione di questa alleanza. Le imprese virtuose misurano il valore di questa visione tutti i giorni e costruiscono dal basso il futuro di un capitalismo gentile e inclusivo.
Molti di noi hanno sempre avuto nel modello di Adriano Olivetti il punto di riferimento. Un modello oggi, dopo più di settanta anni, riscoperto da molte imprese soprattutto al nord.
Al centro di questo modello c’è la consapevolezza che il capitale umano è la più grande ricchezza di cui le imprese dispongono, che bisogna migliorare continuamente il welfare aziendale, che bisogna consentire con opportuni interventi la migliore parità tra uomini e donne, consentendo a queste ultime di rendere compatibile famiglia e lavoro, anche con la realizzazione di asili nido interni alle aziende per favorire la maternità; che bisogna realizzare spazi sempre più belli e accoglienti dove la gente lavora, che bisogna intensificare le attività di formazione permanente dei lavoratori, che bisogna aumentare le borse di studio e i supporti all’educazione dei loro figli; che bisogna lavorare per meccanismi retributivi sempre più incentivanti il merito, la creatività e l’impegno.
Anche il sindacato, un tempo diffidente e/o contrario ad un approccio di questo genere in quanto non frutto di lotte sindacali, ma soprattutto della libera scelta e della cultura degli imprenditori, ha cambiato atteggiamento e, soprattutto a livello territoriale e aziendale, incominciano a vedersi atteggiamenti favorevoli a questo nuovo corso.
La dimensione piccola e media e la natura molto spesso di proprietà familiare delle nostre imprese posizionano bene il nostro sistema imprenditoriale rispetto a un approccio rispettoso e inclusivo dell’attività aziendale, che è normalmente permeata da un fitto sistema di scambi e relazioni positive e virtuose con le persone che lavorano nell’impresa e che spesso la sentono come loro.
Moltissimi imprenditori italiani pensano che non vi sia meccanismo più inclusivo dell’impresa stessa, quando è capace di creare contemporaneamente ricchezza e occupazione qualificata, e di investire continuamente in idee, innovazione e tecnologia per garantire un futuro sostenibile di lungo periodo. Quando è capace di dar vita all’alleanza virtuosa tra meriti e bisogni, mettendo i primi a disposizione dei secondi e facendo sì che questa alleanza non si limiti soltanto all’interno dell’impresa stessa ma giochi anche al suo esterno, interpretando correttamente il concetto di responsabilità sociale.