di ANTONIO GOZZI
Nei giorni delle festività natalizie le guardie mediche dell’Asl 4 sono rimaste pressoché completamente sguarnite.
Si è avuta la drammatica situazione di un unico sanitario, una dottoressa, per coprire contemporaneamente le emergenze di un territorio vastissimo: Portofino, Santa Margherita, Rapallo, Chiavari, Lavagna, Sestri Levante, e tutto l’entroterra con le quattro valli Fontanabuona, Valle Sturla, Val Graveglia e Val Petronio.
Ciò è avvenuto per la grave carenza di medici, denunciata dalla stessa direzione della Asl 4. Nonostante tutte le azioni di reclutamento messe in atto la situazione resta difficile. Rispetto ad un numero ottimale per garantire la copertura del territorio da parte delle Guardie Mediche, che è di trentadue sanitari (uno circa ogni cinquemila abitanti), al 31.12.2022 ve ne erano in servizio soltanto quattordici: meno della metà.
Nei giorni festivi ferie e turnazioni ne riducono ancor più la disponibilità, e cosi si è arrivati nei giorni di San Silvestro e Capodanno all’assurda situazione descritta sopra: invece di sei medici in servizio sull’emergenza, come di solito avviene, uno solo. Praticamente è come se il servizio non esistesse più, perché in caso di emergenza come fa un solo medico a spostarsi in un territorio vastissimo come è quello tra Moneglia, Portofino e Santo Stefano d’Aveto?
Naturalmente il disservizio ne ha provocato un altro: i cittadini bisognosi delle cure della guardia, non trovandola disponibile, si sono riversati anche per problemi di piccola entità sul Pronto Soccorso di Lavagna intasandolo ancora di più di quanto non sia stato negli ultimi mesi.
Se a qualcuno è capitato negli ultimi tempi di avere amici o parenti al Pronto Soccorso di Lavagna, ma pare che anche negli altri pronto soccorso della Liguria le cose non vadano meglio, ha potuto toccare con mano la difficoltà della situazione con pazienti per giorni nei corridoi sulle barelle ecc.
Lo spaccato descritto per la nostra situazione locale è in realtà rappresentativo della situazione sanitaria in gran parte d’Italia.
Il Servizio Sanitario nazionale è stato segnato negli ultimi decenni da tagli nei finanziamenti che ne hanno progressivamente abbassato l’efficienza e l’efficacia: pronto soccorso strapieni e sotto stress, reparti senza letti, liste di attesa interminabili per visite ed esami, anche in caso di malattie gravi, interventi chirurgici rinviati di mesi e così via.
Le stime dicono che mancano al Servizio Sanitario Nazionale 20.000 medici e 60.000 infermieri che non si trovano perché, come nel caso delle guardie mediche, le paghe sono troppo basse e così i nostri giovani medici e infermieri, formati dalle nostre buone università, prendono la strada dell’estero dove sono pagati molto di più.
Chi oggi entra in un ospedale o ha bisogno di cure e di esami sperimenta sulla propria pelle cosa vuol dire avere un Servizio sanitario che non riesce più a far fronte ai bisogni di salute della popolazione, una popolazione che tra l’altro sta invecchiando e quindi chiede più cure.
Un servizio pubblico in defaillance rappresenta oltretutto una grave iniquità sociale perché è chiaro che soffre di più chi non ha la possibilità economica di rivolgersi alla sanità privata per risolvere le sue emergenze e quindi possiamo dire, con un’espressione un po’ datata, che ci troviamo di fronte a una sanità di classe.
C’è quindi bisogno di un intervento rapido e profondo sul settore per mettere in sicurezza la popolazione italiana e la sua coesione sociale e non si può lasciare questo equilibrio solo nelle mani generose, al limite del sacrificio, di medici e infermieri come è avvenuto durante il Covid, incensati dai media come eroi e poi dimenticati rapidamente soprattutto dal punto di vista del riconoscimento economico.
Bisogna ricostruire la medicina territoriale a partire dalla valorizzazione della figura dei medici di famiglia che vanno pagati di più ma a cui si deve richiedere anche una presenza più attiva e vigile accanto ai pazienti. Va potenziata l’azione preventiva in un quadro di informazione e di vigilanza.
In un quadro di questo tipo, così grave e così bisognoso di nuovi investimenti e di nuove risorse finanziarie, non si capisce quale sia la ragione per la quale il Governo Meloni e le forze politiche che lo sostengono (FdI, Lega e FI) si ostinino a non utilizzare i soldi del Mes. Si tratta di 37 miliardi di euro prestati dall’Europa a tassi molto bassi, tenuto conto di dove sono oggi gli interessi sul nostro debito pubblico, con cui si potrebbe davvero trasformare e rilanciare la sanità italiana.
Si dice “ma c’è la condizionalità”, cioè una serie di regole e di impegni da rispettare per utilizzare questi soldi. In realtà queste “condizionalità” sono molto inferiori a quelle richieste per l’utilizzo dei fondi del Pnrr e quindi la scelta di non approfittare di queste risorse è tutta ideologica e scellerata.
Investire sulla sanità italiana e rilanciarla potrebbe essere al contrario una straordinaria opportunità non solo per migliorare la sicurezza dei cittadini ma anche per avviare un programma di innovazione tecnologica, digitale e formativa capace di rendere i nostri ospedali e le nostre università all’avanguardia nel mondo. Si potrebbero finalmente tenere in Italia i nostri laureati in medicina e i nostri infermieri che oggi fuggono all’estero per le paghe troppo basse e per l’assenza di prospettive e si potrebbe trasformare la nostra sanità, dotata di capitale umano di alto livello professionale e morale come ha dimostrato la fase del Covid, in una vera eccellenza italiana, all’altezza delle sue gloriose tradizioni. La nostra industria del bio-medicale potrebbe ulteriormente rafforzarsi garantendo al Paese quegli impianti, macchinari e attrezzature che nella pandemia non avevamo e che con fatica e ritardi abbiamo dovuto approvvigionare all’estero.
Una questione di indipendenza strategica e sicurezza nazionale alle quali Meloni e il suo governo dovrebbero essere particolarmente sensibili.