di ALESSANDRA FONTANA
Non dimenticare la tradizione e dialogare con i suoi custodi per rilanciarla. Questo è il progetto ambizioso guidato da Fabrizio Benente, pro rettore dell’Università degli Studi di Genova insieme ai colleghi di altri atenei italiani. Al centro del disegno la storia dei testetti, uno dei simboli della Val Graveglia e non solo.
I celebri testaieu infatti vengono cotti grazie a questo strumento di ceramica. Una tradizione tramandata di famiglia in famiglia e che sembra – purtroppo – destinata a sparire. L’Università ha partecipato al bando PRIN: Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale, bando 2022 PNRR. Il progetto presentato si intitola: TYPO project. Forms, Decorations and Production of Tyrrhenian Area Pottery from the Middle Ages to the Contemporary Age e avrà durata di due anni con un finanziamento pari a 253mila euro.
“Il Principal Investigator del progetto è Carlo Ebanista, dell’Università degli Studi del Molise – racconta Benente – Io sono Substitute PI e Responsabile dell’Unità di ricerca ligure”. Ci sono anche altri colleghi universitari coinvolti: Federico Cantini da Pisa, Francesca Romana Stasolla da La Sapienza, Nicola Busino dalla Luigi Vanvitelli, Adele Coscarella dalla Calabria, Lucia Arcifa da Catania e Pier Giorgio Ignazio Spanu da Sassari.
“Abbiamo deciso di unirci tra facoltà tirreniche dalla Sicilia fino alla Liguria, vincere un PRIN oggi non è facile e abbiamo scelto di concentrarci sull’uso antico e il possibile riuso, economico e commerciale, delle produzioni di ceramiche locali. Questa è la linea generale, per quanto riguarda la Liguria dovevo essere originale – continua il prof. ordinario di Archeologia cristiana e medievale – tolte le ceramiche di Savona e Albissola, ho scelto la cultura dei testetti per uso alimentare”.
Una tradizione più antica di quanto si possa pensare: “Il loro utilizzo nelle aree rurali alto tirreniche è noto archeologicamente a partire dall’altomedioevo. Nella Liguria orientale appenninica sono stati prodotti, commercializzati ed utilizzati fino all’ultimo quarto del XX secolo. Sopravvivono attualmente non più di due centri di produzione ovvero Iscioli e Montedomenico che hanno conservato i saperi produttivi e utilizzano le materie prime tradizionali, si tratta infatti di luoghi di estrazione dell’argilla”.
E proprio a Iscioli si trova l’ultimo testimone di questa antica tradizione: Bruno Tassano che qualche mese fa con orgoglio aveva raccontato la sua storia: “Sono ancora in attività, lo sono dal 1978 e sono l’ultimo produttore di testetti della valle”. Proprio per questo, quasi ogni giorno si alza e continua la sua missione che è fatta in buona parte di fatica ma soprattutto di amore con quella soddisfazione che gli fa nascere il sorriso sul volto: “Questa è una tradizione secolare… ma non ci sono giovani che vogliono imparare”. Una tradizione che non può cadere nell’oblio né essere travisata. “L’idea era quella di studiare, campionare e raccogliere le fonti orali soprattutto sull’uso alimentare che è ancora attuale – spiega Benente – Raccogliere tutto per una sorta di linea guida per uno sviluppo, culturale e economico”.
Recupero chiama rilancio, o almeno così sperano gli studiosi universitari che si sono imbarcati in questa impresa: “Obbiettivo di progetto è la rigenerazione di un’antica pratica artigianale e il recupero di una tradizione alimentare tipica della Liguria montana. Il quadro operativo deve essere collegato con la reintroduzione di forme di coltivazione e di alimentazione tradizionali e sostenibili (come il recupero dell’oliveto, del castagneto domestico e delle pratiche agricole legate alla coltivazione del mais e dei cereali minori). La creazione di un meta-territorio con tradizioni culturali e gastronomiche riconoscibili, certificate, divulgate e comunicate può essere la base dello sviluppo di un cluster agroalimentare peculiare e, conseguentemente di un incubatore locale di nuove professioni e lavoro”.
Un progetto ambizioso e a cui Benente è legato a doppio filo: dopo aver girato il mondo è ritornato a vivere nella sua Val Graveglia e portare avanti questo disegno ha un significato particolare. “Da archeologici ripercorreremo le tappe dei testetti e cominceremo a dialogare con coloro che conservano i saperi: chi cucina e chi produce. Parleremo anche con chi potrebbe trasformare tutto questo in economia di nicchia”.
Durante questo viaggio ci saranno tante tappe, compresa quella della condivisione: “Pensavo di organizzare degli incontri nelle comunità per registrare video e testimonianze e chissà magari per riuscire a creare un documentario. Mi sto già attivando”. Un passo alla volta, per salvare la memoria delle vallate e non lasciarla cadere in quel burrone chiamato oblio.
