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di ANDREA MURATORE *
Il “Sabato Nero” del 7 ottobre ha gettato nel panico Israele dopo gli attacchi di Hamas e, soprattutto, il flop securitario dei servizi di sicurezza di Tel Aviv che ha prodotto oltre 1.400 morti, in larga parte civile, e una furente reazione dello Stato ebraico, sostanziatasi sino ad ora nel blocco terrestre di Gaza, in durissimi bombardamenti nella Striscia e nella minaccia di un intervento terrestre.
La manovra ha ovviamente ricevuto l’attenzione degli Stati Uniti, presi in contropiede dalla riaccensione del focolaio mediorientale. Non è stato buon profeta il solitamente cauto Jake Sullivan, consigliere della sicurezza nazionale del presidente Joe Biden, che solo pochi giorni prima dell’attacco di Hamas ricordava di non aver mai visto “così tranquillo” il Medio Oriente da vent’anni. L’iniziativa dei militanti e la muscolare reazione del governo di Benjamin Netanyahu, assieme al risveglio dei proxy iraniani come Hezbollah e al sostegno di Teheran ad Hamas, hanno proiettato Washington di nuovo nell’agone mediorientale.
Il duo costituito dal presidente Joe Biden e dal Segretario di Stato Tony Blinken ha oggigiorno la necessità di affrontare una triplice sfida: in primo luogo, circoscrivere la crisi sul fronte regionale; in secondo luogo, garantire sostegno a Israele senza compromettere lo schema di contenimento all’iniziativa iraniana nel mondo arabo; infine, evitare che Russia e Cina possano inserirsi come broker della risoluzione della crisi.
Tutto si tiene: sia l’assertività diplomatica degli Stati Uniti, con Blinken impegnato in un tour de force tra Israele, Egitto, Giordania e intento a raccogliere assicurazioni sulle iniziative politiche e umanitarie dei Paesi vicini a Gaza, che le scelte di deterrenza. L’invio della portaerei USS Gerald Ford nel Mediterraneo Orientale non è da intendere come la volontà americana di partecipare ai raid su Gaza o – come è stato detto – di colpire Hezbollah o la Siria ma bensì come il classico esempio di naval diplomacy e deterrenza. L’amministrazione Usa oggi, paradosso dei paradossi, si trova a difendere come linea del Piave un’eredità di Donald Trump e del vecchio governo del non amato Benjamin Netanyahu, ovvero quegli Accordi di Abramo regolanti la distensione tra Israele e i Paesi arabi. Con l’obiettivo di fare da mediatori alla distensione israelo-saudita che li puntellerebbe e su cui impatta la crisi scatenata di Hamas.
Si tratta in sostanza di salvare Netanyahu da sé stesso: le linee rosse di Washington sulla necessità di un intervento proporzionato e graduale a Gaza e contro il rischio che nella Striscia l’entrata dell’esercito di Israele provochi un bagno di sangue sono dirette anche nella direzione di contrastare le spinte dell’ultradestra israeliana contro cui Blinken aveva già speso parole dure a febbraio, condannando la strategia di accelerare gli insediamenti in Cisgiordania. Una guerra dura e lunga sarebbe carburante per la propaganda iraniana e per l’inserimento della Russia e la Cina in un tradizionale cortile di casa statunitense e, ovviamente, israeliano.
Il campo di gioco che gli Usa vogliono perimetrare si può realisticamente concentrare, dunque, su quattro caposaldi: sì all’operazione anti-Hamas di Israele, ma a condizione di non intralciare il diritto umanitario; via libera a Tsahal ma non all’occupazione di Gaza: si chiede a Israele, di fatto, una soluzione politica alla crisi dopo la punizione militare degli islamisti; contenimento all’Iran ma no al teorema, che Blinken si è ben guardato dall’avvalorare, sull’equiparazione Hamas-Iran; in definitiva, massima attenzione e cautela alla volontà di mantenere l’iniziativa diplomatica in un’area da cui gli Stati Uniti non possono disimpegnarsi facilmente. Un quadrilatero di pragmatismo e realismo volto a consolidare un principio di cautela: evitare di fare scelte dannose e irreversibili. Potenzialmente controproducenti per la situazione regionale, come la storia recente che gli Usa non vogliono ripetere ha spesso insegnato.
(* analista geopolitico ed economico)
Andrea Muratore, bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per ‘Inside Over’ e svolge attività di ricerca presso il CISINT – Centro Italiano di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.