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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

L’industria italiana non vuole morire di sindrome cinese. Europa svegliati

L’intervento del presidente Antonio Gozzi all’assemblea confindustriale di Bergamo e Brescia davanti a oltre 1500 industriali
L'industria Italiana è una delle prime al mondo ma sono spesso gli italiani a criticare troppo
L'industria Italiana è una delle prime al mondo ma sono spesso gli italiani a criticare troppo
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di ANTONIO GOZZI

Senza false modestie, ma guardando i numeri, la manifattura italiana ha realizzato nel 2023 oltre 1200 miliardi di fatturato e più della metà è andato alle esportazioni: non essendoci più svalutazioni competitive della moneta un simile risultato, ossia il fatto che la manifattura italiana esporti più della metà di quello che fattura, è segno di un vantaggio competitivo puro.

Per questo, quando si affrontano i problemi della competitività dell’industria europea, credo che l’Italia abbia qualcosa da dire. Abbiamo chiesto al centro studi di Confindustria e lo stesso faremo con la Luis di provare ad analizzare in profondità le sorgenti di questo vantaggio competitivo, perché il vantaggio competitivo non è mai per sempre, oggi c’è e domani può venire meno.

È interessante comprendere e capire bene, per non essere “negativisti”, ma cercando invece di essere sempre propositivi anche nelle oggettive difficoltà, quali sono le ragioni di questa forza, che diventa trainante anche a livello europeo, prendendo, ad esempio, i distretti industriali di Brescia e Bergamo, due tra le più grandi concentrazioni manifatturiere d’Europa.

Una delle ragioni più importanti del successo della manifattura è la diversificazione del portafoglio del sistema industriale italiano, il quale diversamente da quello tedesco ha molte filiere che sono tra le prime a livello mondiale e si compensano a vicenda nei momenti di difficoltà. Dobbiamo fare in modo che queste filiere continuino a lavorare: la politica industriale per noi di Confindustria è una politica industriale per fattori.

Gli interventi dei presidenti Franco Gusalli Beretta e Giovanna Ricuperati lo dicono con chiarezza: lavoriamo sul capitale umano, lavoriamo per favorire l’innovazione in ogni modo possibile, lavoriamo per far sì che l’iper regolamentazione europea arrivi definitivamente al capolinea.

Abbiamo cercato di mettere a punto un’agenda sulla quale far convergere i colleghi tedeschi, francesi, spagnoli, polacchi e cechi per riuscire, tutti assieme, a proporre alla nuova Commissione Europea un percorso che non neghi gli obiettivi di decarbonizzazione, ma che possa attuarli in modo pragmatico e razionale, rifiutando l’estremismo ideologico che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni dalla Commissione europea.

L’agenda riguarda in primis il sistema ETS (sistema che obbliga le imprese a pagare una tassa per le emissioni carboniche): è possibile che dopo vent’anni dalla nascita di questo sistema a nessuno sia venuto in mente di fare un bilancio, una sorta di assessment per vedere quanto di buono ha dato e quanto ha tolto al sistema industriale europeo? È possibile che una misura così importante da parte della commissione europea e del parlamento europeo non sia stata sottoposta ad un’analisi costi benefici? Tutto questo è da non credere e quando tra trent’anni scriveranno un libro su quello che è successo in Europa si chiederanno il perché.
Il secondo tema è il Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism), uno strumento che iniziamo a sperimentare nelle nostre imprese, nato forse per compensare gli effetti negativi dell’Ets, ma che si è attorcigliato per la malattia mentale della burocrazia europea in un accrocchio che le aziende, specie quelle medie piccole, non possono gestire.

Ma si può chiedere il tracking carbonico dei fornitori dei propri fornitori? Io ci vedo una malattia mentale in questa cosa che certamente darà origine a nuove falsificazioni: perché un fornitore indonesiano dovrebbe dirci quale è il suo footprint carbonico?
Inoltre questo meccanismo provocherà nuove “retaliation” (misure daziarie di risposta da parte dei paesi colpiti dal Cbam) che per l’Italia sono pericolosissime, visto che noi esportiamo molto anche in quei paesi che saranno colpiti dal Cbam.

Senza contare che nelle regole del Cbam per evitare il doppio aiuto, il commissario europeo per la concorrenza Vestager ha deciso che saranno eliminate le quote gratuite di CO2, rischiano di sparire interi settori come l’acciaio ad altoforno, la ceramica, la chimica, il vetro e le fonderie. Il settore della ceramica italiana ha sospeso gli investimenti, perché non avendo profondità di visione oltre il 2030, nessuno guarda più al futuro.

Dobbiamo renderci conto che occorre riprendere in mano questi temi e farlo con alleanze europee perché da soli gli italiani non ce la fanno. In questo senso abbiamo un grande compito di spiegazione e di ottenimento del consenso, un compito non facile perché la crisi di due grandi paesi come la Germania e la Francia rende tutto più difficile anche nell’interlocuzione con i nostri confratelli tedeschi e francesi.
Ma bisogna farlo, Confindustria ha grande forza in tal senso e voglio dire che sin dalle prime mosse la presidenza Orsini è stata chiara e determinata su questi temi, perché ha parlato di nucleare, di Cbam, di automotive, nodi che sono di fronte a tutti noi.

Voglio, infine, sottolineare un vizio culturale europeo, perché il problema è anche culturale, io la chiamo la sindrome dei “primi della classe”: abbiamo voluto regolare tutto, abbiamo preteso che il resto del mondo seguisse le nostre regole, cosa che non è avvenuta, siamo l’unica area del mondo, ad esempio, che ha deciso di elettrificare l’automotive, decisione che non è stata presa negli Stati Uniti né in Cina.

L’elezione di Trump può essere uno shock per l’Europa, perché se il neo presidente farà quello che ha annunciato in campagna elettorale le asimmetrie tra il sistema industriale americano e il sistema industriale europeo aumenteranno ulteriormente e il rischio di desertificazione industriale in Europa si farà ancora più grave.

Gli americani, sia repubblicani che democratici, sono protezionisti e l’ipotesi reale è che le politiche daziarie americane verranno ulteriormente esasperate. Si parla di un 100% di dazi sulle auto elettriche cinesi il che significa che le auto elettriche cinesi e la sovra capacità produttiva di auto elettriche in quell’area cercherà sbocchi dove i mercati sono aperti in Europa in particolare.

Secondo aspetto: continueranno gli interventi di sostegno all’industria americana, Biden ha fatto una misura gigantesca, la cosiddetta “Ira”, Trump proseguirà su questa strada. Ultimo elemento da considerare: ci sarà un ulteriore rallentamento delle politiche di decarbonizzazione negli Stati Uniti, addirittura Trump ha già annunciato che uscirà dall’accordo di Parigi.

Tutte queste tre cose assieme rappresentano un pericolo letale per l’industria europea.
Noi come industriali dobbiamo assumere, ma lo facciamo già per il nostro dna, un’attitudine da combattenti, non vogliamo morire di sindrome cinese. Per questo la forza con la quale tutte le mattine andiamo in fabbrica e cerchiamo di fare del nostro meglio per migliorarci dovrà essere riversata in un grande movimento culturale di opinione in Europa per fare capire ai “decision maker” europei quanto hanno sbagliato negli ultimi 10-15 anni e far capire loro che bisogna cambiare registro. Se questo non avviene, andiamo al disastro.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, durante la nostra assemblea annuale di Confindustria ha pronunciato una frase, secondo me, molto bella e sintetica: ha detto che se le politiche di decarbonizzazione diventano di desertificazione industriale è una vera debacle perché in un deserto non c’è niente di verde.

Questo è il concetto chiave: senza sistemi industriali non ci sarà alcuna decarbonizzazione, ma soltanto miseria. Questo dobbiamo far capire all’Europa, sarà una battaglia dura, ma è in gioco la sopravvivenza perché i prossimi dieci anni saranno determinanti. O ce la facciamo o cambierà tutto, perché anche il modello sociale inclusivo europeo, considerato giustamente essenziale da Draghi, sta in piedi soltanto se c’è un sistema industriale che lo sorregge e senza questo sistema finirà anche il welfare europeo di cui siamo così orgogliosi.

Occorre stare attenti perché quello che succede dal punto di vista elettorale in Germania e in Francia insegna che c’è un nesso tra industria e democrazia. Dobbiamo tenere vivi i sistemi industriali e mantenere una cura per le attività sociali e del lavoro inclusive. Se non succede questo la fuga verso il populismo, la semplificazione e la risposta iper semplificata rischia di mettere in crisi anche i nostri sistemi democratici.

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