di ANTONIO GOZZI
Secondo un recente sondaggio di Swg, se l’ex-premier Conte decidesse di mettersi alla testa del M5S, quest’ultimo schizzerebbe dall’attuale 15% circa al 22% dei consensi, e ciò a scapito praticamente solo del Pd che dal 19% attuale crollerebbe al 14%.
I sondaggi su ipotesi simulate valgono sempre quello che valgono, e non mi sento di dire che questa previsione sia destinata ad avverarsi almeno nella dimensione degli spostamenti indicati. Inoltre, il sondaggio della Swg (l’unico finora ad aver testato l’ipotesi) è certamente condizionato dalla recente popolarità conquistata da Conte quando era Presidente del Consiglio, e dalla reazione emotiva di molti di quelli che ne avevano apprezzato l’azione e non hanno digerito la sua ‘defenestrazione’ e l’arrivo di Mario Draghi.
La rilevazione può indicare però, anche se i numeri – come detto – potrebbero essere non così pronunciati, una linea di tendenza insidiosa per il Pd, che si può comunque rappresentare come una perdita significativa di voti a favore di un M5S eventualmente guidato da Giuseppe Conte.
Ben si comprendono allora i sommovimenti interni a quel partito, e in particolare la richiesta di un congresso ‘vero’ che proviene da più parti, congresso in cui anche la leadership di Zingaretti potrebbe essere messa in discussione.
Molti all’interno del Pd non sembrano accettare la linea politica del gruppo dirigente di quel partito, soprattutto portata avanti dalla triade Zingaretti-Orlando-Bettini, che nella recente crisi di governo non è riuscita nella costruzione di un Conte-ter e ha teorizzato, senza predisporre alcun piano B, l’indispensabilità di Conte e il non esistere niente all’infuori di lui e di un’alleanza strategica con i grillini se non le elezioni.
Tutti sappiamo come è andata: crisi pandemica e volontà della maggioranza delle forze parlamentari a non chiudere anticipatamente la legislatura hanno portato al Governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi. Una scelta fortemente voluta dal Presidente della Repubblica Mattarella, gradita alla grande maggioranza degli italiani e che invece ha trovato il Pd impreparato e costretto a subire uno sbocco della crisi non voluto.
Il bilancio politico dell’esperienza del Conte-bis, al di là dell’importante risultato di essere riusciti a dislocare il M5S su posizioni più europeiste, appare per il Pd in perdita. Se l’obiettivo principale della coalizione e del Conte bis era fermare la destra e ridurre i suoi consensi elettorali sia pure pagando il prezzo di un’alleanza fino ad allora sempre esclusa, quella con i grillini, lo stesso è completamente fallito, almeno a giudicare dai sondaggi, che vedono sempre la coalizione di centro destra largamente maggioritaria nel Paese.
Non molto comprensibile è stata poi la svolta strategica per la quale l’alleanza con i grillini da motivata come ‘stato di necessità’ è diventata la prospettiva politica strutturale per il futuro.
Poiché è impensabile che, sia pure in tempi di ‘decrescita felice’, il gruppo dirigente di un partito giochi scientemente alla sua decrescita e alla crescita di un altro partito, e poiché è evidente che la strategia del Pd era quella di abbracciare i grillini per fagocitarli, bisogna dire che i risultati di questa impostazione e le difficoltà gravi di prospettiva in cui versa attualmente il Pd sono lì a dimostrare che la linea politica Zingaretti-Orlando-Bettini non è stata vincente. L’ipotizzata l’alleanza strategica con il M5S rischia veramente di essere l’abbraccio della morte per il Pd.
Pensate che scenario da incubo: Conte va a guidare il M5S, che diventa la forza più importante della coalizione, il Pd non ha scelte alternative perché magari nel frattempo si è andati verso un sistema elettorale maggioritario e la coalizione ora è davvero obbligata ma vede il Pd come seconda forza costretta ad accettare come candidato presidente del consiglio il leader dell’altro partito.
Ad uno non più giovane come me questa linea ricorda quella sciagurata del Psi di De Martino dopo la vittoria dell’allora Pci alle elezioni amministrative del 1975. Giunte rosse dappertutto, il Pci quasi al 35%, e De Martino che improvvidamente se ne uscì dicendo “… mai nessun governo senza i comunisti…”.
Alle successive elezioni politiche del 1976 il Psi con il 9,6% toccò il suo minimo storico portando alle dimissioni di De Martino, alla nomina di Craxi segretario del partito e all’inizio della sua politica chiamata dell’autonomia socialista (autonomia, naturalmente, dal Pci).
Molti anni sono passati da allora, ma le regole della politica, per certi aspetti, restano le stesse e ferree.
Se dici che senza qualcun altro non esisti e che mai ti staccherai da lui, una quota consistente del tuo elettorato ti lascerà preferendo l’originale, più grande e più forte, a te che sei la brutta copia. L’assurdo della situazione odierna è che nel 1975 a giustificare comportamenti gregari c’era almeno la grande forza attrattiva di un Pci vittorioso. Oggi il Pd invece sembra aver legato mani e piedi il suo destino a una forza che fino a ieri sembrava sull’orlo del dissolvimento.
Le tendenze colte dal sondaggio di Swg, sia pure con tutte le cautele di cui si è detto, sembrerebbero confermare questa regola. Il Pd ha ripetuto alla nausea che senza Conte non si poteva andare avanti, che Conte era il leader naturale del centro-sinistra e si ritrova oggi a constatare che più di un quarto del suo elettorato sembrerebbe disposto a lasciarlo per seguire Conte e il M5S, rigenerando una forza politica che tutti praticamente davano per morta.
Oltre al ripetersi di errori storici della cultura comunista e dei suoi eredi oggi alla guida del Pd (‘pas d’ennemis à gauche’, doppiezza tattica, ecc.) la vicenda politica recente ripropone drammaticamente il tema di cosa sia il Pd.
Una mancanza di identità molto importante, se non quella di essere il partito del ‘governo’, un confuso riferimento a principi e valori condivisi, debolezza dell’insediamento sociale e dei riferimenti culturali, la silenziosa guerra delle correnti e fazioni interne. Nel Governo Draghi il Pd non esprime nessuna donna ministro perché i tre posti disponibili vanno ai tre capi delle correnti, tutti uomini. Questi sono i gravi problemi che deve affrontare oggi il Pd.
In una situazione del genere è fin troppo facile che l’opinione pubblica, l’elettorato ragioni in maniera basica dicendosi: dimmi con chi vai, con chi ti accompagni , e ti dirò chi sei.
L’alleanza strategica con il M5S, teorizzata da Zingaretti e soci, non può che rendere l’identità del Pd ancora meno riformista, non portando alcun vantaggio a quel partito. Con una simile alleanza strategica infatti il Pd di fatto dichiara di aver scelto tra le sue diverse anime quella che spinge e che incarna una vocazione populista, che conferma la sua adesione al giustizialismo giudiziario e moralista, che spinge verso lo statalismo economico, cioè tutti i temi da sempre distintivi del M5S. In questo caso, ovviamente, vaste fasce di elettorato sceglieranno l’originale invece che la copia.
Bisogna riconoscere che il Pd nasce da una ‘fusione fredda’ tra la tradizione politica comunista e quella della sinistra democristiana. Le due culture non si sono mai veramente amalgamate, forse perché era culturalmente impossibile, e si sono ritrovate convergenti soltanto nella pratica del governo a tutti i costi e nel non dare spazio a un riformismo cattolico, socialista e liberale che pure aveva sperato di trovare nel Pd a vocazione maggioritaria la sua casa.
È del tutto evidente che una coalizione strutturale con il M5S guidata da Conte non può essere la prospettiva dei riformisti.
D’altro canto la componente riformista nel Pd (a parte la parentesi di Matteo Renzi) è stata ed è tradizionalmente debole, e sicuramente la scissione di Renzi l’ha ulteriormente indebolita. Nei momenti topici recenti ha taciuto, come nel caso della prescrizione dei processi penali. Chi avrebbe mai immaginato che il Pd tutto intero avrebbe approvato quel provvedimento? Eppure è successo senza che nessuno in quel partito si stracciasse le vesti e facesse una vera battaglia politica sui principi. Tutti, per ‘real politik’, a rimorchio del M5S e del suo Ministro della Giustizia.
I temi della modernizzazione del Paese, del ridare un ruolo vero allo Stato nelle funzioni essenziali che gli competono, dell’esecuzione efficiente dei programmi che non possono restare mera propaganda ma si devono realizzare con rapidità e coerenza nell’interesse dei cittadini e mettendo al posto giusto persone capaci e competenti – tutto ciò che in altre parole sembra voler fare il Governo Draghi – dovrebbero essere al centro dell’azione di una forza riformista.
Non sembra così per il Pd che appare, almeno fino ad oggi, molto più concentrato sulle alleanze che sui contenuti dell’azione politica e che in conseguenza di ciò perde sempre di più attrattiva presso i riformisti. Una vera incognita per il futuro.