di ANTONIO GOZZI
Negli ultimi venticinque anni della mia vita ho passato, per ragioni di lavoro, molto tempo a Bruxelles ed ho avuto l’avventura di guardare da vicino l’attività delle Istituzioni europee: Commissione, Consiglio e Parlamento. Ho potuto misurare le varie fasi della costruzione dell’Unione e del mercato unico, constatandone gli avanzamenti e i progressi ma anche le tante lacune di governance inevitabilmente dovute alla faticosa convivenza dei tanti Stati membri, con le loro differenti lingue, culture, interessi e sovranità.
Ho potuto constatare anche il peso che sull’Unione hanno avuto i vari Stati, con un peso preponderante da sempre di Germania e Francia, ed analizzare l’evoluzione delle culture della sconfinata burocrazia comunitaria, spesso caratterizzate da un eccesso di inclinazione tecnocratica talvolta autoreferenziale.
La più grande conquista di questi anni è stata senza dubbio quella della costruzione del mercato unico, con l’abbattimento delle barriere doganali e daziarie e la realizzazione della moneta unica, l’Euro. L’era dell’Euro ha rappresentato il punto più alto dell’Unione con il suo effetto di promozione e protezione delle economie dei paesi membri, e di affermazione sui mercati internazionali di un nuovo soggetto economico di grande dimensione, caratterizzato da una sua moneta e da una sua Banca Centrale.
L’Italia può forse recriminare qualcosa per la determinazione iniziale del cambio lira/euro certamente a noi non favorevole, ma se si fa un bilancio di questi anni e si considera la protezione che l’Euro ha consentito, in termini di tassi di interesse per un Paese con un grande debito pubblico come il nostro, si capisce appieno l’importanza che per noi ha l’Europa; e si possono giudicare come irresponsabili e demenziali le posizioni, sempre più rare e minoritarie per la verità, di chi nella politica italiana a un certo punto ha pensato a un’uscita dell’Italia dall’Unione Europea e dall’Euro.
Gli anni di Draghi alla testa della BCE sono stati importantissimi non solo perché l’attuale Presidente del Consiglio è riuscito a salvare l’euro nella crisi finanziaria del 2009 e 2012 con il famoso “whatever it takes”, ma anche perché ha saputo coagulare intorno a sé una maggioranza di Stati europei non disposti a subire l’estremismo monetarista e fiscale dei cosiddetti Stati frugali. Quella maggioranza ha consentito alla BCE di comprare titoli di stato dei Paesi più deboli sostenendoli nei momenti più difficili della congiuntura interna e internazionale (quantitative easing) e in definitiva quella stessa maggioranza di Paesi sta alla base dell’approccio più solidale che l’Europa ha avuto a seguito della pandemia di Covid, sfociato nel Next Generation Fund e nel finanziamento, in parte a fondo perduto con debito comunitario, dei diversi PNRR nazionali, il più importante dei quali è quello italiano con i suoi oltre 200 miliardi di euro di dotazione.
L’approccio più solidale è stato consentito anche dalla leadership di Angela Merkel che si è imposta sui falchi tedeschi, che pure esistono ancora oggi. La Merkel lascia un grande vuoto proprio per la sua dimostrata capacità, probabilmente il merito suo più grande, di dominare le spinte tedesche integraliste.
Ho passato questa settimana di nuovo un po’ di tempo a Bruxelles per un’iniziativa di Confindustria e del suo Comitato Energia, di cui faccio parte come rappresentante di Federacciai. Il Comitato ha lavorato intensamente per due giorni di confronto e dibattito con funzionari della Commissione non solo italiani sui temi del momento, e in particolare sulle misure e sulle conseguenze del Green Deal e cioè delle politiche contro il cambiamento climatico e per la decarbonizzazione.
Siamo stati anche ospiti dell’Ambasciata d’Italia, che ha organizzato insieme a Confindustria un incontro con i parlamentari europei italiani. Questi sono stati con noi un’intera serata, ed abbiamo potuto scambiare opinioni e fare il punto sui principali temi del momento.
Non è possibile anche per ragioni di spazio dare conto del lavoro svolto e dei suoi contenuti. Ma mi sembra interessante riferire di alcuni spunti e soprattutto del clima che ho potuto percepire, anche carico di molte incertezze.
La prima questione riguarda la politica. L’esito delle elezioni tedesche, che obbligano la Germania per la prima volta da molti anni a una coalizione tripartita la cui costruzione richiederà molto tempo e i cui esiti politici e programmatici sono tutt’altro che scontati, e le elezioni presidenziali francesi in programma per la tarda primavera prossima, anch’esse non prive di incognite, creano un clima sospeso e pieno di incertezza, dato il peso già richiamato sopra che Germania e Francia hanno da sempre sulla vita dell’Unione.
La sensazione è di essere entrati in un’era di solitudine europea e di confronto sempre più difficile con le dimensioni e le masse critiche delle altre grandi aree economiche del mondo.
Sul piano strategico il “dobbiamo imparare a fare da soli” di Angela Merkel rilancia il tema della difesa comune. Dopo la tragedia afgana si torna a parlare di un progetto di difesa comune europea. Tema assai complicato non solo per le risorse finanziarie da mettere in campo: ma la immaginate voi una forza di intervento rapido composta da uomini che parlano 20 lingue diverse e che risponde a una governance plurale in cui non è chiaro chi decide, quando, come e cosa?
Il nodo della difesa comune e delle enormi difficoltà europee a definire una chiara e unitaria politica estera sono lì a testimoniare i limiti della costruzione europea e segnalano un progetto ancora incompiuto e quindi non determinante sui destini del mondo.
La seconda grande questione che ha costituito il focus dei lavori del Comitato Energia di Confindustria è quella climatica e delle politiche che l’Unione si accinge ad assumere, in particolare il pacchetto ‘Fit-for 55’. La sensazione che emerge, anche dal confronto con i funzionari europei, è quella di un assetto molto rigido, a tratti ideologico, della Commissione Europea, la quale in realtà si è finora consultata poco e male con i diversi portatori di interessi, e perciò rischia di sottovalutare gravemente le conseguenze politiche, economiche e sociali delle misure ipotizzate.
L’industria europea in particolare rischia di essere la più sacrificata, e rischia di soccombere contro concorrenti di altre parti del mondo che non dovranno soggiacere ai vincoli e alle prescrizioni imposti alle imprese europee. Non esiste un piano europeo volto a salvaguardare questo patrimonio industriale e ad accompagnarlo sulle strade della decarbonizzazione. Nei piani comunitari non si tiene conto di quelle imprese e/o settori che già molto hanno fatto sulla strada della decarbonizzazione e del risparmio energetico, e di fatto, con un’attitudine negativa verso il gas anche come energia della transizione, si punta a un modello teorico prevalentemente fatto di rinnovabili, senza considerare se sia davvero possibile realizzarle nella misura richiesta.
Di fatto la Commissione è stata fortemente influenzata, nel disegnare le politiche climatiche, dai Paesi del nord Europa, poco industrializzati e con molto vento, per le loro torri eoliche, facili da installare nel Mare del Nord con i suoi fondali bassi.
Così come sul modello automotive la Commissione ha seguito prevalentemente il modello elettrico scelto dall’industria automobilistica tedesca, scartando di fatto altre tecnologie come quelle legate a combustibili naturali o sintetici, capaci anch’essi di ridurre fortemente le emissioni di CO2.
I motori elettrici sono estremamente più semplici e poveri di componenti dei motori a scoppio, e ciò distruggerà gran parte delle grandi filiere della componentistica, specie di quella legata ai motori, collocate soprattutto in Italia, ma questo non sembra preoccupare granché la Commissione.
In una situazione complicata come quella descritta, senza una leadership riconoscibile e con una sottovalutazione marcata del ruolo delle imprese industriali il ruolo dell’Italia di Draghi potrebbe essere molto importante specie se si riusciranno a fare le riforme previste nel PNRR e se si riuscirà a dare alla crescita economica odierna un tratto duraturo.
Il prestigio internazionale del Presidente del Consiglio, la sua capacità di governo e di costruzione di alleanze composite sia a livello europeo che nazionale da una parte e il peso della manifattura italiana, leader a livello continentale con quella tedesca, dall’altra, potrebbero rappresentare risorse e valori sui quali costruire un’ipotesi europea impegnata nel Green Deal e pronta a farsi carico dell’emergenza climatica, ma anche capace di coniugare tutto ciò con un futuro reale e non astratto di imprese, tecnologie, filiere industriali.
Il primo banco di prova per verificare il peso dell’Italia è proprio l’approvazione definitiva del pacchetto ‘Fit- for 55’ prevista in Commissione per la fine dell’anno. La misura non può passare nella declinazione fino ad oggi proposta. Bisogna sottoporre le misure ipotizzate a una profonda e dettagliata analisi di impatto per correggerne gli estremismi e per introdurne di nuove al fine di non distruggere l’industria europea.
Questo ruolo, giocabile a nostro avviso in questo momento, non può prescindere dalla qualità degli uomini che abbiamo a Bruxelles e che lavorano nelle strutture della Commissione. Nel passato spesso non siamo stati, con la nostra burocrazia, all’altezza di quelle dei Paesi più importanti: Germania, Francia e perfino Spagna.
La sensazione che traggo frequentando gli ambienti degli italiani a Bruxelles e anche dagli incontri di questi due giorni con nostri alti funzionari della Commissione è che la nostra squadra, negli ultimi anni, sia di molto migliorata e che la qualità dei nostri funzionari si sia alzata moltissimo. Abbiamo toccato con mano questo salto di qualità nei nostri due giorni di lavoro. La competenza generale e specifica e il valore e l’equilibrio dell’Ambasciatore Michele Quaroni, Rappresentante permanente aggiunto della Rappresentanza permanente d’Italia presso la UE, insieme a quella degli altri funzionari italiani che con noi hanno lavorato, ci ha profondamente colpito e fa ben sperare per il futuro dell’Italia nel contesto europeo.