di ANTONIO GOZZI
Area di servizio di Nure, sull’autostrada A21 tra Piacenza e Cremona. Mi fermo all’autogrill dove fanno il panino con la mortadella più buono d’Italia. Le due operatrici che mi servono e che mi conoscono da tanti anni (sono un habitué a causa della mortadella) con simpatia e intelligenza mi raccontano della loro fatica e dei turni allungati che si devono sobbarcare per l’assoluta impossibilità di trovare personale da assumere.
La ricerca va avanti da mesi ma non si trova nessuno. Non si tratta di un lavoro precario: c’è un contratto regolare per lavorare dietro il bancone del bar otto ore al giorno. Ciò nonostante, nessuno si presenta.
Le due operatrici imputano questa difficoltà agli effetti culturali del reddito di cittadinanza. Sostengono che in molti preferiscono starsene a casa con i loro mille euro al mese (se non si è single) arrotondandoli con qualche lavoretto in nero piuttosto che avere un posto fisso.
A pensarci bene la mancanza di risorse umane è anche il grido di dolore di moltissimi operatori turistici e commerciali (ristoranti, bar, alberghi) che incontrano enormi difficoltà nella ricerca di personale per la stagione estiva.
Ritengo che le mie amiche operatrici dell’autogrill abbiano fatto un’analisi corretta. È evidente che il reddito di cittadinanza ha effetti perversi, specie nelle zone dove non c’è disoccupazione strutturale, ed è altrettanto vero che non deve diventare un sussidio permanente. Vedo il rischio che si crei, come avviene in altri paesi del mondo, una fascia di soggetti sussidiati tutta la vita e che non ne vogliono sapere di rientrare nel mercato del lavoro. Nel 2021 si è trattato di oltre 1 milione di nuclei familiari, con un esborso complessivo per le casse dello Stato di oltre 12 miliardi all’anno.
Quello del reddito di cittadinanza così come concepito oggi, e cioè praticamente slegato da politiche attive del lavoro e da politiche di formazione (a proposito, che ne è dei quasi tremila navigator?) è il tipico esempio di misure sbagliate generate dal populismo e dalla propaganda.
La mia sensazione è che gli italiani, o gran parte di essi, all’uscita della pandemia siano alla ricerca di concretezza e di fatti, siano sempre più insofferenti alla propaganda e si rendano conto di quanto tempo si è perso affidando la cosa pubblica a incompetenti alle prime armi capaci solo di slogan e di ideologia.
Il governo Draghi è l’antidoto ad anni di retorica e bugie populiste. È la ricetta giusta e coraggiosa per condurre l’Italia fuori dalle difficoltà e farla ripartire con ritrovata fiducia verso il futuro. Una protezione autorevole, e autorevolmente riconosciuta nel mondo, contro un declino del Paese che sembrava irreversibile.
Le ‘vedove’ del governo Conte sono sempre meno, chiuse nel ridotto del ‘Fatto Quotidiano’ e impegnate nel patetico tentativo di sponsorizzare una fronda del M5S contro il governo Draghi e le sue scelte. Ma gli argomenti e i numeri scarseggiano. Si è a lungo, e insensatamente, polemizzato contro la divisa del generale Figliuolo e ora è difficile farlo dato il successo della campagna vaccinale (tra l’altro i detrattori del generale e della sua divisa hanno dimenticato che non c’è corpo dell’esercito più caro agli italiani degli alpini, vera arma di popolo, amatissima da tutti perché sempre al fianco e al servizio delle comunità colpite da disastri e calamità naturali).
Il secondo obiettivo affidato da Mattarella a Draghi, e cioè la presentazione all’Europa nei termini prescritti del PNRR (Piano nazionale di resilienza e ricostruzione) è stato puntualmente raggiunto, e ora il Presidente del Consiglio e i suoi ministri stanno lavorando alle riforme senza l’adozione delle quali l’Unione Europea non ci darà gli ingentissimi fondi del Recovery Plan.
Qui il terreno è più accidentato e difficile, perché il rischio di atteggiamenti ideologici e propagandistici è in agguato.
Riforma della giustizia, riforma fiscale, riforma delle procedure e della pubblica amministrazione, degli appalti, transizione ecologica sono tutti temi sui quali le forze politiche cercano identità e spesso propongono approcci divisivi.
Sono convinto però che Draghi e l’Italia ce la faranno, perché troppo grande è la posta in gioco e nessuno se la sente di essere il colpevole della perdita di una così grande opportunità. Ci sono molti segnali positivi in tal senso.
La lettera di Di Maio al ‘Foglio’ contro la gogna politica e mediatica agli indiziati di reato, per moltissimo tempo strumento di lotta politica e propaganda del M5S, è un fatto inedito e importante che consente di affrontare la riforma della giustizia con spirito di realismo ed equità. Così come vanno in tal senso i grandi consensi trasversali che i referendum proposti dai radicali sulla giustizia stanno ottenendo.
E anche in questo caso gli italiani sembrano aver capito che non ci sono caste di intoccabili senza macchia, e ciò vale per tutti, anche per la magistratura.
In tema di fiscalità, a tutti è chiaro che oggi è il momento di dare agli italiani e non di chiedere nuove imposte, e che occorre una riforma globale che mantenga il principio della progressività ma riduca il carico fiscale sui contribuenti che è uno dei più alti del mondo. Così come a tutti e chiaro che non è il momento di fare, fuori da questo contesto, proposte identitarie e divisive. L’accordo internazionale su una tassazione minima alle grandi multinazionali, che giustamente Draghi ha indicato come un fatto storico, aiuterà anche la riforma fiscale italiana.
Brunetta è riuscito in tempi record a far passare la riforma della PA avviando quel processo di ringiovanimento dei ranghi e di digitalizzazione senza i quali sarà impossibile spendere i soldi del PNRR.
Grazie al ministro Cingolani il tema della transizione ecologica sta uscendo dalle fumisterie insensate e ideologiche e sta prendendo la strada giusta, quella della determinazione a raggiungere gli obiettivi proposti facendo le cose e non declinando solo slogan. C’è un bellissima frase di Cingolani, pronunciata al Festival dell’Economia di Trento, che rende bene il concetto: “La transizione è questione complessa, non c’è una soluzione semplice come sentiamo dire da chi strilla, si tratta di problemi tridimensionali che toccano la giustizia sociale, il lavoro. Io non ne posso più di sentire demonizzare l’industria. Non si può cambiare tutto in un giorno e vanno create le condizioni infrastrutturali, tecnologiche, fare crescere anche il mercato della domanda, cambiare il modello produttivo e industriale, ma dobbiamo farlo in maniera sostenibile, ma la sostenibilità è anche garantire il lavoro. Io trovo offensivo sentire dire che tutto questo è contro l’ecologia”.
Serietà, responsabilità, senso del dovere, competenza, premio al merito. Avanti così che l’Italia ce la fa.