di NICOLA SALDUTTI *
Per capire dove stia andando l’economia italiana bisognerebbe partire dai numeri, naturalmente. E allora risolviamo subito la questione: secondo le previsioni del governo il Prodotto Interno Lordo crescerà nel 2023 dello 0,3-0,4%, mentre per il 2022 la crescita acquisita sarebbe intorno al 3,7%. Fin qui la fotografia (necessaria) di un Paese che dopo la fermata della pandemia si era rimesso in moto superando ogni più ottimistica aspettativa e poi ha subìto il contraccolpo della guerra scoppiata il 24 febbraio con l’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe.
Bastano solo questi elementi per cogliere un punto: il tessuto imprenditoriale italiano, fatto di 4 milioni di imprese e di pochi gruppi di grandi dimensioni, ha dovuto ridisegnarsi completamente per far fronte all’aumento del prezzo dell’energia, salito dai 9 dollari per ogni metro cubo di gas, fino al livello record di 300 dollari. E lì è cominciata la riconfigurazione delle fonti e delle aree di provenienza del metano. Un riorientamento avviato in tempi rapidi e che sta portando una prima trasformazione profonda del sistema energetico nazionale, con un coinvolgimento molto più ampio delle piccole e medie imprese. Certo, i tempi delle autorizzazioni sono ancora troppo lenti, certo la burocrazia fa la sua parte, ma è anche vero che il tasso di innovazione di cui sono capaci le nostre imprese, i nostri territori, sta mostrando una vitalità che indica una capacità di reazione allo choc che forse non ci saremmo immaginati.
Seconda trasformazione, la consapevolezza che la sfida delle competenze rappresenta un asset strategico per la competitività e per la vita stessa di un’economia. È vero, le statistiche dicono che il divario tra figure richieste dal mercato e figure offerte dai sistemi formativi è pari almeno a 100 mila persone. Decisamente troppo alto, il paradosso di una disoccupazione che si calcola in circa 2 milioni di persone e di lavori che non trovano competenze adatte, non è tollerabile per un Paese del G7. Però anche qui le cose, lentamente si stanno muovendo, nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza lo sforzo per rafforzare gli Its comincia a essere visibile, le Università stanno (non tutte) provando a diventare hub di innovazione, il dialogo con le imprese (spesso difficile per una questione anche di linguaggio) si sta intensificando, dai Competence Center al Cnr, all’Enea. Certo, si potrebbe accelerare ma prima neppure c’era.

Terza trasformazione. La doppia transizione, digitale e ecologica, ormai è partita da tempo. In modo intermittente, come sempre avviene in un Paese che affonda le sue radici nel Rinascimento di Leonardo Da Vinci ma poi ancora vive della separazione tra cultura umanistica e cultura scientifica. Però se pensiamo che nei servizi digitali la pubblica amministrazione raggiunge (non sempre, è vero) 36 milioni di italiani, dovremo ammettere che questo dato sarebbe stato semplicemente impensabile.
Nella economia verde, anche se a pensarci bene i colori dell’economia sono un artificio retorico (blu per il mare, brown per quella che inquina, silver per gli anziani), ci sono 3 milioni di occupati, siamo diventati primi per riciclo in Europa, secondo i calcoli di Symbola. Dunque, la transizione è partita, anche prima del Pnrr. Ed è partita perché da sempre le aziende italiane devono fare i conti con la scarsità di materie prime, dal ferro alla lana. E dunque il sistema ha dovuto costruire reti, ecosistemi, territori, distretti, per poter gestire in modo efficiente risorse scarse e trasformarle in valore. Con la sostenibilità tutto deve diventare misurabile, dall’impatto ai possibili danni. Alla riduzione della CO2 emessa in atmosfera. Basta guardare quello che stanno facendo aziende, associazione di categorie, banche, assicurazioni, su questo fronte, per vedere che la trasformazione indotta dall’Agenda Onu 2030 è molto più reale e concreta di quanto i detrattori vogliano sostenere. E qui l’economia italiana si gioca una partita nella quale potrebbe giocare in Premier League, non tra gli inseguitori. Perché l’economia e la bellezza e la sostenibilità sono cose nelle quali sappiamo cavarcela.
Quarta trasformazione. La revisione delle catene del valore, l’accorciamento reso necessario da motivi strategici legati alla guerra ma legati anche ai nuovi equilibri con la Cina, sta aprendo possibilità di re-shoring in Europa, di ritorno agli investimenti produttivi di prossimità comunitaria, che solo qualche anno fa sarebbe stata pura fantasia proporre. Per la seconda manifattura d’Europa è una buona notizia, a patto che imprese, politica, territori, università, sindacati, sappiano trovare un nuovo patto di crescita sostenibile e di solidarietà reso ormai competitivo dalle condizioni esterne e dalle urgenze del Pianeta.
I segnali ci sono, le urgenze dei giovani lo richiamano più volte e il confine tra profitto e non profitto è sempre più mobile. Vale la pena ricordare le parole di Antonio Genovesi: “Fatigate per il vostro interesse; niuno uomo potrebbe operare altrimenti, che per la sua felicità; sarebbe un uomo meno uomo; ma non vogliate fare l’altrui miseria; e se potete, e quando potete, studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse, tanto più, purchè non si sia pazzi, si debb’esser virtuosi. È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri”.
È vero, mi rendo conto di essere stato molto ottimista. Ma mi vengono in mente le riflessioni di un economista che andrebbe riscoperto, Giorgio Fuà. L’economista che guardava ai dati del Pil, ma che contava i teatri. Aveva proprio ragione.
(* caporedattore della Redazione Economia del ‘Corriere della Sera’)