di ANTONIO GOZZI
La frase più importante pronunciata dopo la vittoria di Joe Biden alle presidenziali americane è stata senza dubbio quella di Kamala Harris, la sua vice-presidente designata, e la prima donna a diventare vicepresidente degli Usa.
Kamala, anche per la sua età, rappresenta il futuro del Partito Democratico americano, e tra quattro anni potrebbe riuscirle ciò che non è riuscito a Hillary Clinton: diventare il primo presidente donna degli Stati Uniti d’America.
Figlia di immigrati (un economista giamaicano e un’oncologa indiana), moglie di un avvocato ebreo, nel suo primo speech dopo la vittoria, vestita di bianco come le suffragette del primo ’900, ha detto: “La democrazia non è uno stato, è un atto”.
In questa frase sta tutta l’enorme difficoltà della battaglia condotta dai democratici americani contro Trump per sconfiggerlo, ma anche la preoccupazione per ciò che succederà nei 70 giorni che mancano all’insediamento di Biden.
Trump infatti non ha riconosciuto la sconfitta, ha preannunciato una battaglia legale senza quartiere, denuncia brogli senza alcuna prova o evidenza degli stessi, sta compiendo atti presidenziali molto significativi come la nomina del nuovo capo del Pentagono in sostituzione del vecchio, come se il suo ‘regno’ non dovesse mai finire.
Molti temono nei prossimi mesi un periodo di caos e di possibili violenze, tenuto conto del fatto che una parte dei sostenitori di Trump si è radicalizzata e gira armata. Scenari del genere sembrano fantascienza per la prima democrazia del mondo, eppure non sono impossibili, e il fatto che ci possa essere una drammatica rottura istituzionale con il rifiuto di Trump di andarsene dalla Casa Bianca viene dato dagli osservatori come un’evenienza possibile.
La democrazia, come dice Kamala, anche in Usa ha bisogno di una continua conferma da parte dei cittadini, non è data per sempre e non si difende da sola, ha bisogno di un consenso attivo per sopravvivere, esige che siano rispettate le regole, le leggi e lo stato di diritto. Ma se c’è una parte anche consistente della popolazione che non accetta più questo patto fondativo cosa succede?
Ciò che sta succedendo in America fa riflettere sullo stato delle liberaldemocrazie occidentali, tutte in difficoltà perché esposte ai venti forti di un populismo estremista, di atteggiamenti antagonisti e di rifiuto della democrazia liberale, delle teorie post-democratiche di leader autoritari.
Biden ha preso circa 75 milioni di voti, ma Trump, aumentando in valore assoluto i voti conquistati quattro anni fa, ne ha totalizzati più di 70 milioni. Da dove viene questo consenso e perché così tante persone sposano una visione della politica e del mondo così lontana dalla liberaldemocrazia?
La domanda ci riporta inesorabilmente alla questione degli effetti perversi di una globalizzazione selvaggia che ha fatto morti e feriti in vasti strati delle popolazioni occidentali, specie nella classe operaia e nei ceti medi. Le democrazie occidentali, aperte e liberali, fondate su economie di mercato, non hanno retto l’urto di una globalizzazione ‘sgovernata’” con il suo disordinato trasferimento di ricchezza e di produzioni verso Oriente che ha impoverito sempre di più fasce di popolazione europee e americane.
Le élites occidentali non sono state capaci di ascoltare e comprendere il grido di dolore, il senso di insicurezza, la rabbia che cresceva dal basso. Non si è stati capaci, anche a sinistra, di proporre percorsi inclusivi dei più deboli ed emarginati, con ciò isolandoli sempre di più, e rendendoli facili obiettivi e vittime di una manipolazione del linguaggio e della visione della democrazia.
È stato giustamente detto che il trumpismo, quattro anni fa, è stato il segnale di una vera e propria rivolta popolare contro l’establishment al governo, contro classi dirigenti autoreferenziali, incapaci di proporre un rinnovamento giusto e percepite come egoiste e abusive.
L’onda si è estesa dagli Usa al resto del mondo occidentale e in particolare all’Europa, dove sovranismi e populismi di ogni tipo hanno aumentato il loro consenso fino a minacciare lo stesso edificio dell’Unione Europea.
Abbiamo ascoltato per anni il linguaggio e la narrazione aberrante di queste nuove tendenze politiche: complottismi di ogni genere, sospetti sui vaccini e sulle imprese farmaceutiche, sfiducia totale nelle nuove tecnologie e nelle imprese, vagheggiamento di decrescite più o meno felici, sovranismi, nazionalismi e contestazione di tutti gli organismi internazionali multilaterali.
La diffusione della rete ha dato armi comunicative potentissime a questa narrazione, a questa ‘rivoluzione conservatrice’, com’è stata definita e con la quale dovremo fare i conti per molto tempo.
Gli ultimi due anni hanno segnato però due fatti importanti: la sconfitta dei partiti estremisti e sovranisti alle elezioni europee e la sconfitta di Trump negli Usa.
L’Europa anche a causa del Covid, sia pure tra lentezze e contraddizioni, sembra aver compreso la lezione e guidata dalla Germania e dalla Francia sembra avere imboccato una strada che guarda meno agli equilibri ragioneristici dei bilanci pubblici e di più ai bisogni e alle sofferenze dei popoli.
Gli Stati Uniti, se Biden riuscirà ad insediarsi e ad iniziare la sua azione di governo, dovranno riprendere il cammino verso una democrazia governante, capace di riunire e lenire le tensioni e le divisioni interne, di battere discriminazioni e povertà, di combattere insieme all’Europa il cambiamento climatico. Il sogno americano può ridare entusiasmo agli Usa e al mondo a condizione di occuparsi anche dei più deboli e indifesi, senza la tutela dei quali la democrazia perde valore.