Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. In questa puntata ospitiamo un articolo sulla politica monetaria di Fed e Bce. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.
di GIACOMO STIFFAN *
Nell’ultimo periodo molti risparmiatori hanno scoperto, loro malgrado, che gli investimenti meno rischiosi non sono sempre quella garanzia di stabilità che pensavano. La successione ininterrotta di eventi negativi degli ultimi anni ha infatti messo a dura prova i portafogli degli investitori, e non ha fatto prigionieri nemmeno tra quelli più prudenti.
L’esplosione della domanda post pandemica, unita alla scarsa offerta sul mercato dovuta alla chiusura cinese (durata fino a pochi mesi fa), nonché all’aumento dei costi di produzione a causa del caro energia (a sua volta generato dalla guerra), hanno fatto esplodere i prezzi al consumo nel 2022. Una tempesta perfetta, durante la quale ci si sarebbe aspettato che gli investimenti più tranquilli avrebbero quantomeno perso in misura minore rispetto a quelli a rischio più elevato.
Non è stato così, e nell’ultimo anno il comparto azionario ha retto il colpo meglio di quello obbligazionario. Il motivo sta nell’aumento dei tassi d’interesse che ha reso le vecchie obbligazioni, stipulate quando i tassi erano a zero, poco appetibili sul mercato odierno rispetto alle nuove emissioni, con rendimenti più alti in tempi più contenuti.
Lo dimostra il caso della Silicon Valley Bank. L’istituto di credito aveva investito enormi quantità di denaro in titoli di stato a bassissimo rischio e lunga scadenza, il cui valore di mercato è crollato causando la corsa agli sportelli che ne ha decretato il fallimento.
Chi ha obbligazioni in portafoglio da più di un anno, infatti, sa bene quanto il 2022 sia stato un annus horribilis. Compresi i detentori di alcuni titoli di Stato, con certe emissioni (Btp Futura, ad esempio) che lasciano per strada perdite per oltre il 30% del valore di mercato e rendono quei denari virtualmente immobilizzati fino alla scadenza.
Un decennio di tassi a zero o poco più, infatti, ci aveva abituati a un mercato drogato, ma l’illusione è terminata. Il rialzo dei tassi è la più importante arma a disposizione delle banche centrali per contrastare l’inflazione, il mostro che fa paura a tutti. In particolare dovrebbero temerla i meno abbienti, cioè chi spende tutto il proprio reddito per sopravvivere e quindi subisce l’inflazione in tutta la sua potenza. Chi, invece, è in grado di risparmiare ha la possibilità di recuperare almeno in parte la perdita, investendo.
Aumentando i tassi, l’obiettivo delle banche centrali è rendere più caro alle imprese finanziarsi, raffreddando l’economia e di conseguenza l’inflazione. Una situazione che non è piacevole per chi ha un mutuo a tasso variabile, ma è molto allettante per chi decide d’investire sull’obbligazionario adesso, dopo il brusco calo dello scorso anno.
C’è tuttavia un’anomalia. Da qualche mese le obbligazioni a breve termine spuntano rendimenti migliori di quelle a lungo termine e sebbene la situazione mostri qualche segno di miglioramento negli ultimi giorni, questo fenomeno rappresenta un campanello d’allarme che spesso anticipa una recessione. Non si tratta di una certezza matematica, ma non è l’unico segnale: la Germania è in recessione da due trimestri e la paura del contagio è dietro l’angolo.
Tuttavia è anche vero che nel dicembre scorso la maggioranza degli analisti prevedeva una recessione già nei primi mesi del 2023 che non solo non c’è stata, ma è stata sostituita da un’impennata dei mercati. Ora, però, alcuni economisti della Fed (la banca centrale statunitense), sostengono che siamo giunti alla resa dei conti, e la recessione sta arrivando davvero.
In tutto questo la Fed ha saputo agire in maniera più decisa e puntuale rispetto alla prudentissima Bce, nonostante negli Stati Uniti l’inflazione non abbia mai raggiunto i livelli di alcuni Stati europei. La Fed, infatti, è partita ben prima e con maggiore forza nell’aumentare i tassi, tanto da non aver avuto bisogno di alzarli nell’ultimo mese.
Questo non tragga in inganno, al di qua dell’Atlantico è un’altra partita: la Bce paga il suo eccesso di prudenza e dovrà applicare ancora qualche aumento, oltre a un sostanziale quantitative tightening. Cosa, quest’ultima, che al momento non rientra nei piani della Fed, che sarà libera d’iniettare liquidità nel sistema nel caso in cui la recessione si manifestasse davvero.
Da non sottovalutare anche la componente emotiva dei mercati. In tal senso, l’efficacia degli aumenti dei tassi è direttamente proporzionale alla determinazione mostrata nel farlo. Nel momento in cui il mercato subodorasse di aver raggiunto i tassi massimi, gli investitori pomperebbero liquidità nel mercato vanificando in parte gli effetti sull’inflazione. È il motivo per cui Christine Lagarde, a differenza del suo omologo statunitense, è stata molto più ferma nel chiarire che ci saranno ulteriori aumenti. D’altronde, la partenza ritardata della Bce lo scorso anno ora richiede uno sforzo maggiore per rimanere al passo.
In finanza, dopotutto, l’equilibrio vince sempre. Anche sulla troppa prudenza.
(* vicedirettore del blog Jefferson – Lettere sull’America)