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Giovedì 4 dicembre 2025 - Numero 403

Il governo britannico del laburista Starmer sviluppa con coraggio l’industria della carbon capture 

La sinistra continentale invece non riesce a liberarsi dell’estremismo del green deal
Keit Starmer, primo ministro laburista del Regno Unito
Keit Starmer, primo ministro laburista del Regno Unito
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di ANTONIO GOZZI

La Carbon Capture o Cattura del Carbonio (in inglese anche Carbon Capture and Storage and Utilization o CCS/CCU) è un sistema di tecnologie progettate per catturare l’anidride carbonica (CO2) prodotta da attività industriali o dalla combustione di combustibili fossili, prima che venga rilasciata nell’atmosfera. Ciò per contrastare il cambiamento climatico.

La CO2, attraverso diversi processi e tecnologie, viene separata dai gas di scarico prodotti da centrali elettriche, cementifici, raffinerie, acciaierie a ciclo integrale (che usano cioè il carbone) o da altri impianti industriali che usano il gas naturale.

Una volta catturata, la CO2 viene compressa e trasportata, solitamente tramite pipeline o nave, verso un sito di stoccaggio e/o di utilizzo.

Nel caso di stoccaggio (CCS) la CO2 viene iniettata in profondità nel sottosuolo soprattutto in giacimenti esauriti di petrolio e gas o in formazioni saline.

Nel caso invece di utilizzo (CCU) la CO2 viene riutilizzata per produrre nuovi materiali come carburanti sintetici, materiali da costruzione o in processi industriali (ad esempio produzione di urea per fertilizzanti).

Questa tecnologia della Carbon Capture, ancora relativamente costosa, sia in termini di capex che di opex, è stata a lungo contrastata a livello europeo dall’ambientalismo estremista che l’ha sempre individuata come un modo per continuare ad usare idrocarburi e ritardare la transizione energetica.

Purtroppo tale impostazione ha condizionato gli ultimi 10 anni della Commissione Europea, la così detta era Timmermans, dal nome de vice presidente e commissario all’ambiente olandese che per molto tempo ha escluso la CCU/S dalle tecnologie “ammesse” ai finanziamenti europei e quindi anche a quelli di banche e istituzioni finanziarie varie, la così detta “tassonomia”.

Solo dopo un lungo e faticoso dibattito questa tecnologia è stata inclusa nella tassonomia, solo se applicata ai processi industriali non elettrificabili (cementifici, acciaio da altoforno, carta, vetro ecc.) ma non alla produzione di elettricità con centrali turbogas.

Questa impostazione, che non tiene conto dell’esplosione futura dei consumi elettrici nel mondo segnalata da tutti gli studi più attendibili, ritiene, erroneamente, che in futuro non ci sarà più utilizzo di gas naturale. Al contrario la produzione di energia elettrica con il gas continuerà almeno fino a quando non si affermerà su larga scala il nucleare di quarta generazione (Small Reactors SMR) e più tardi quello da fusione.

È questa la negazione emblematica del principio di “neutralità tecnologica” nonostante Ursula Von der Leyen nel suo discorso di insediamento della nuova Commissione ne abbia esplicitamente parlato.

Potremmo spiegare bene questo concetto di neutralità tecnologica, che alcuni preferiscono dire di “libertà tecnologica”, riferendoci al famoso insegnamento del grande leader cinese Deng Xiaoping: “Non è importante che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che prenda il topo”. La frase esprime, pragmaticamente, l’idea che non conta l’ideologia ma l’efficacia dei risultati.

Invece in Europa tutte le tecnologie che non puntavano all’elettrificazione totale mediante energia rinnovabile (fotovoltaico, eolico e idroelettrico) sono state a lungo avversate. Perché? Per pura ideologia, e per l’influenza di un ambientalismo radicale che non si è mai preoccupato di verificare se una transizione energetica così violenta, obbligatoria, unilaterale avrebbe comportato deindustrializzazione, costi eccessivi e talvolta insostenibili per famiglie e imprese, e una riduzione del tenore di vita.

Ma la realtà alla lunga ha sempre la meglio sull’ideologia e sul dogmatismo.

In Gran Bretagna ad esempio da anni le tecnologie della CCU/S sono al centro dell’attenzione e anche il primo ministro, il laburista Keir Starmer, le ha sposate con convinzione. In conseguenza di ciò il governo britannico ha intenzione di impegnare, nei prossimi anni, 21,7 miliardi di sterline per promuovere e sostenere l’industria della cattura del carbonio con 9,4 miliardi di sterline già impegnati in questa legislatura.

In questo quadro, recentemente, il Governo britannico ha dato il via libera alla costruzione della rete di trasporto e stoccaggio di CO2 di Liverpool Bay che è l’elemento centrale di HyNet, il cluster industriale per la cattura della CO2 più importante del mondo. Oggi questo cluster riceve un’ulteriore spinta perché nuovi progetti (una grande centrale elettrica a gas con cattura delle CO2, e un altro grande impianto per la cattura di CO2 dalla produzione di biomasse) stanno avviando trattative con il Governo e le industrie inglesi hard to abate per unirsi al sito leader mondiale in questa tecnologia.

Questa scelta rientra a pieno titolo nella moderna strategia industriale del Governo Britannico e contribuirà a sostenere l’industria pesante e di base di quel paese in modo pulito.

Si prevede la creazione fino a 50.000 nuovi posti di lavoro con lo sviluppo del settore da qui al 2030 che rilancerà il cuore industriale del Regno Unito.

Il caso inglese e le scelte coraggiose del suo Governo laburista sono un bell’esempio di concretezza e pragmatismo con cui deve essere affrontata la transizione energetica e, in qualche modo, rappresentano un richiamo e un monito alla sinistra continentale europea, ancora attardata e quasi immobile sul Green Deal dell’era Timmermans che mostra sempre di più la sua inattuabilità politica, economica e sociale e che sarà giocoforza da rimettere in discussione.

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