“La cultura del sospetto non è l’anticamera della Verità; la cultura del sospetto è l’anticamera del Khomeinismo” (Giovanni Falcone)
(r.p.l.) Matteo Renzi nel suo intervento al Senato sulla mozione di sfiducia contro il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha opportunamente citato una frase famosa del magistrato siciliano ucciso dalla mafia per spiegare le ragioni profonde per le quali il suo gruppo, Italia Viva, non era disponibile a chiedere le dimissioni del Ministro sulla base di insinuazioni infamanti lanciate contro quest’ultimo da un magistrato, in un talk-show televisivo e senza alcun riscontro oggettivo.
Le insinuazioni infamanti consistevano nel ritenere che Bonafede non avesse a suo tempo promosso detto magistrato al vertice del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in pratica la struttura che gestisce tutte le carceri italiane) per pressioni ricevute da ambienti mafiosi.
Ma chi è il magistrato in questione? Qui sta il bello della storia, e anche il suo grande insegnamento. Il magistrato in questione è Nino Di Matteo, icona grillina dell’antimafia (i 5S arrivarono a proporlo come candidato alla Presidenza della Repubblica), protagonista delle inchieste e dei processi sulla presunta trattativa Stato-Mafia, oggi autorevole membro del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura).
Cosa succede? Una grande nemesi, un enorme strappo istituzionale (un membro del CSM che lancia insinuazioni infamanti contro il Ministro della Giustizia), un’incredibile rissa tra uno dei numi tutelari del giustizialismo ed un ministro allevato a quella scuola e cultura.
Viene alla mente l’insegnamento del vecchio Nenni: “…a fare a gara a fare i puri troverai sempre uno più puro… che ti epura”.
Proprio così. Se non ci fosse l’emergenza Covid-19 la vicenda sarebbe deflagrata nel Paese, sui media, in Parlamento e probabilmente anche a Palazzo Chigi. E invece tutto sommato è successo poco o niente. Perché? Da una parte per lo stato di necessità e l’impossibilità di aprire una crisi politica al buio in piena pandemia. Dall’altra perché i grandi mezzi di informazione, che per quasi trent’anni hanno cavalcato il giustizialismo imperante e la voglia di manette dell’antipolitica oggi finalmente giunta al governo, non se la sono sentita di fare i conti veri con una storiaccia che merita invece di non essere dimenticata ma al contrario chiarita e approfondita.
Molte sono le domande che è lecito porsi.
Perché il dottor Di Matteo ha aspettato due anni per lanciare le sue accuse infamanti contro il Ministro Bonafede? Perché ha taciuto così a lungo sul fatto che più di due anni fa il Ministro della Giustizia, dopo avergli promesso quel famoso posto al vertice delle carceri italiane, cambiò idea in una notte? Solo oggi si è reso conto di ciò che avvenne? Che elementi aveva per lanciare insinuazioni così gravi? E non era meglio una Procura della Repubblica piuttosto che un talk-show televisivo per avanzare questi dubbi sul Ministro?
Tutte domande a cui è obbligatorio dare una risposta, anche per evitare che si diffondano altri dubbi e altre insinuazioni. In particolare, come ipotizzano diversi commentatori, che Di Matteo si sia voluto vendicare di Bonafede che per la seconda volta, qualche settimana fa, gli aveva preferito un altro magistrato al vertice del DAP.
Ma vi sono domande a cui anche il Ministro della Giustizia Bonafede deve rispondere.
Come fa un Ministro in carica a non portare in un Tribunale con l’accusa di diffamazione chi lo infama senza elementi di fatto? Come fa a non chiedere ragione di un comportamento inammissibile per un membro del CSM, che utilizza una telefonata a una trasmissione televisiva per attaccare il Ministro della Giustizia? Tema, questo, che probabilmente dovrebbe preoccupare anche il plenum del CSM, nonché il primo magistrato d’Italia e Presidente del CSM stesso che siede al Quirinale.
Il Ministro Bonafede ha avuto in tutta la vicenda un comportamento balbettante e inspiegabilmente passivo, confermando la fondatezza di un giudizio espresso senza pietà su di lui dall’indimenticato Massimo Bordin, che qualche giorno prima di morire lo definì dai microfoni di Radio Radicale (che il M5S ha per lungo tempo cercato di chiudere) “…il più pericoloso Ministro della Giustizia di sempre…”.
La pericolosità e l’inadeguatezza di Bonafede si sono viste non solo per il sistematico attacco condotto fin dal suo insediamento contro i diritti della difesa, per la quasi abolizione della prescrizione, per l’incapacità di gestire le carceri in tempi di Covid-19 dove si sono sviluppate rivolte che hanno causato tredici morti. Il ministro Bonafede si è rivelato pericoloso e inadeguato anche nell’occasione del caso Di Matteo, quando è stato stritolato dall’ingranaggio infernale, politico-giudiziario, costruito e usato per anni dal suo movimento, e basato sulla cultura del sospetto diffuso a piene mani per sputtanare e distruggere gli avversari politici.
Un regolamento di conti tra giustizialisti che ha travolto Bonafede, incapace di difendere la figura e il prestigio del Ministro della Giustizia.
L’insegnamento da trarre da questa triste storia è che la concezione illiberale e forcaiola della giustizia e del diritto che ha individuato per anni i suoi idoli nel segno del primato dell’accusa e del sospetto (e Nino Di Matteo è stato per lungo tempo uno di questi idoli) è incompatibile con lo stato di diritto, e infatti si estrinseca in un armamentario indegno di un paese civile: compressione dei diritti della difesa, inversione dell’onere della prova, uso della carcerazione preventiva per estorcere confessioni, definizione dei reati sempre più vaga in modo da poterli usare per indagini senza elementi sostanziali, visione per la quale non ci sono innocenti in giro ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca (Davigo-pensiero), intercettazioni a gogo’ con propalazione sistematica di contenuti penalmente irrilevanti senza che nessuno faccia niente, e altro ancora.
Tale concezione si alimenta di un paradigma sostanzialista di matrice totalitaria per cui il mezzo è sempre giustificato dal fine. Il mezzo è il diritto penale, il fine è politico o morale, e qui torniamo a Giovanni Falcone e al rischio di “khomeinismo”.
Questa visione distorta, per la quale centinaia di innocenti e le loro famiglie hanno passato le pene dell’inferno, e spesso hanno avuto le vite distrutte dagli errori e dall’irresponsabilità di pubblici ministeri estremisti, punta a redimere la società e a purificarla dal male.
È un’impostazione che si trova agli antipodi dello stato di diritto e della concezione liberale e garantista del diritto penale, la quale assegna allo stesso un compito molto meno ideologico ma non per questo meno importante: perseguire i reati tassativamente indicati dalla legge.