di ANTONIO GOZZI
La recente vicenda del voto al parlamento europeo sul così detto ASAP, che è l’atto di sostegno agli approvvigionamenti militari con il quale la Commissione europea ha chiesto all’europarlamento un impegno congiunto dei 27, ha visto sbandare significativamente il gruppo del Pd, con l’incapacità manifesta della segretaria Elly Schlein di governare le sue truppe.
In pratica il documento stabilisce una priorità sugli approvvigionamenti militari per la sicurezza e sugli aiuti militari all’Ucraina, per i quali possono essere usati tutti gli strumenti finanziari disponibili, Pnrr compreso. Schlein nei giorni precedenti al voto aveva assunto una posizione, sulla quale cercava di portare tutto il gruppo europarlamentare del Pd, che poteva sintetizzarsi così: no all’uso dei fondi del Pnrr per armi e munizioni e quindi sull’ASAP ci si astiene.
Ma la posizione dei socialisti europei era tutt’altra: favorevole al documento, sottolineava la priorità della sicurezza e del sostegno all’Ucraina. Schlein, che evidentemente non aveva considerato questo piccolo dettaglio, alla fine ha lasciato libero il gruppo di votare come voleva, e il gruppo si è spaccato addirittura in tre posizioni: la maggioranza (10 deputati) favorevole all’ASAP come i socialisti europei, 4 astenuti e 1 contrario.
La vicenda è significativa perché, almeno fino a ieri, il Pd non aveva mai tentennato in politica estera e l’ex segretario Letta sulla vicenda dell’invasione russa dell’Ucraina e sugli aiuti militari al Paese invaso aveva tenuto il partito su una posizione euro-atlantica di una chiarezza cristallina.
È vero che in Parlamento Schlein ha confermato la posizione sull’Ucraina, ma si intravede sul punto una sofferenza del nuovo gruppo dirigente del Pd che la vicenda del voto europeo conferma.
La questione è super delicata.
La politica estera è da sempre in Italia la linea di divisione tra la sinistra comunista, storicamente incarnata dal Pci e dai movimenti alla sua sinistra, e il socialismo riformista del Psi e della socialdemocrazia italiana. Un terreno appunto delicatissimo, perché attinente alla collocazione internazionale dell’Italia, al suo sistema di alleanze, ai problemi strategici della sicurezza del Paese.
I socialisti italiani, almeno a partire dal 1956 e cioè dall’invasione dei carri armati russi in Ungheria per reprimere i moti di libertà nati in quel paese, non ebbero mai dubbi e tentennamenti da che parte stare.
La rivoluzione ungherese e l’invasione sovietica che schiacciò la richiesta di democrazia degli studenti divise per sempre la sinistra italiana sulla politica estera. Da un lato il Partito Comunista Italiano al seguito di Palmiro Togliatti si schierò senza se e senza ma a favore dell’Urss. Dall’altro il Partito Socialista Italiano di Pietro Nenni si schierò da subito con le istanze di libertà dei giovani ungheresi. Nenni restituì in quell’occasione il premio Stalin che gli era stato conferito nel 1952 e si dichiarò a disposizione dei ribelli ungheresi. Dalle pagine dell’‘Avanti!’, il giornale del Psi, il giornalista Luigi Fossati realizzò una serie di articoli, in parte scritti dall’Ungheria, che sarebbero diventati ‘Qui Budapest’, il primo dei libri bianchi di Einaudi.
Gli articoli di Fossati fecero esplodere il dibattito pubblico italiano dividendo profondamente i partiti della sinistra.
Nel Pci, tutto schierato con i sovietici e con la loro violenta repressione del dissenso ungherese, Pietro Ingrao, capofila dell’ala movimentista e direttore dell’‘Unità’, arrivò a scrivere: “I ribelli controrivoluzionari hanno fatto ricorso alle armi. La rivoluzione socialista ha difeso con le armi le sue conquiste e il potere popolare come è suo diritto e dovere sacrosanto”.
A lui rispose Antonio Giolitti, che con il suo ‘manifesto dei 101’ e con il suo storico discorso al congresso del Pci del 1956 fece una critica feroce alla Russia ma anche al suo stesso partito. Fu l’ultimo atto all’interno del partito di un uomo che aveva privilegiato l’etica alla politica. L’anno seguente entrò nel Psi.
Ma tutti i passi fondamentali dell’Italia in politica estera videro una profonda divisione a sinistra con il Pci su posizioni antioccidentali e addirittura antieuropee e i socialisti italiani, come per la verità la stragrande maggioranza della famiglia socialista europea, saldamente agganciati al quadro delle alleanze euro-atlantiche.
Perfino sulla scelta europea il Pci fu contro. Oggi pochi ricordano che il Pci fu l’unico partito italiano a votare contro la ratifica dei trattati che istituirono la Cee e l’Euratom, antenati dell’Ue. Nel 1957 il Pci definì il Mec (Mercato Comune Europeo) come “la forma sovranazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico”. Questa storia è stata poi volutamente cancellata dalla sinistra comunista, nel tentativo di consolidare le proprie successive posizioni europeiste e di costruire una vera e propria mitologia volta a nobilitare la storia delle origini dell’Ue.
O ancora il passaggio più cruciale e recente fu la posizione del Pci alla metà degli anni Ottanta quando il primo presidente del consiglio socialista, Bettino Craxi, decise di schierare sul territorio italiano missili Pershing e Cruise in risposta al puntamento degli SS20 sovietici contro Parigi, Roma, Berlino, Londra. Quella decisione indusse il premier tedesco, il socialdemocratico Helmut Schmidt, a fare altrettanto. Gli storici sostengono che la decisione italiana e tedesca fu l’innesco del processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Anche in quella occasione il Pci e la sinistra comunista, nascosta dietro le bandiere arcobaleno delle manifestazioni pacifiste (largamente finanziate da Mosca, come si scoprì più tardi) inveiva contro Craxi definendolo guerrafondaio e fascista.
Berlinguer nel 1979, dopo 10 anni dall’ennesima tragedia cecoslovacca (carri armati russi a Praga per reprimere la ‘primavera’ cecoslovacca guidata da Dubček), dichiarò di sentirsi più sicuro da questa parte della cortina di ferro, ma la posizione della sinistra comunista e del Pci rimase sempre contraddistinta da ambiguità causate non solo dai finanziamenti che il Pci ebbe dai sovietici fino a pochi anni prima della caduta del muro di Berlino, ma anche da una radicata cultura antioccidentale e antiamericana che in ogni occasione è tornata a manifestarsi.
Questa cultura è come un fiume carsico, che sparisce per lungo tempo e poi riappare, come è accaduto con le incredibili posizioni del presidente comunista dell’Anpi Pagliarulo a proposito dell’invasione della Russia dell’Ucraina.
Il Pd invece fin dalla sua nascita ha tenuto la barra dritta in politica estera e sul sistema delle alleanze internazionali dell’Italia, senza tentennamenti e senza diversioni, e questa probabilmente è stata la conquista più importante di quel partito, per altre questioni più confuso e altalenante: basti pensare alle politiche sul lavoro.
Il Pd d’altro canto non avrebbe potuto stare al governo del Paese per lunghissimo tempo senza una chiara posizione di politica internazionale coerente con le scelte storiche dell’Italia.
Proprio per questo risultano preoccupanti i tentennamenti e le incertezze di Elly Schlein. È nell’interesse di tutti, ed è un supremo interesse dell’Italia, che la politica estera e le alleanze internazionali siano patrimonio comune di maggioranza e opposizione.
Se il Pd vuole davvero un giorno ritornare ad essere forza di governo lasci a Conte e al M5S e ai gruppuscoli della sinistra estrema le ambiguità e le nostalgie pacifiste e terzomondiste e, senza incertezze, continui nella linea di politica estera europea ed euroatlantica che fino alla segreteria di Letta lo ha caratterizzato.