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di ANDREA MURATORE *
La raffica di incriminazioni e potenziali processi in via di apertura che si sta abbattendo su Donald Trump non sembra ad oggi fermare la corsa del tycoon repubblicano nelle primarie del Grand Old Party. A meno di cinque mesi dai primi caucus, Trump è tra il 49 e il 53% delle intenzioni di voto repubblicane nei sondaggi del partito, oltre trenta punti sopra Ron De Santis, sfidante più accreditato ad oggi. Dopo la fine disastrosa del suo mandato, Capitol Hill e le ondate di scandali giudiziari, dopo l’appello contro l’accettazione della sconfitta elettorale del 2020, senza precedenti nella storia americana, parrebbe incredibile a un primo sguardo che l’ex presidente abbia ancora questa base di consensi. Ma tant’è. E non si tratta di un accidente della storia, come non è stato un accidente della storia l’ascesa del trumpismo nel 2016 e il suo ingresso alla Casa Bianca come torsione populista, nativista, identitaria e sovranista del tradizionale conservatorismo Usa.
Sull’elettorato repubblicano Trump continua ad avere un indubbio ascendente nonostante un trend politico personale in declino negli ultimi anni. E bisogna chiedersi il perché. Proviamo a identificare almeno cinque elementi di riferimento. Sicuramente, due elementi giocano a favore di The Donald nella sua terza campagna presidenziale: il miliardario ed ex capo dello Stato Usa ha un maggiore potere d’attrazione mediatico-politica e una fama a cui nessuno sfidante può ambire. Ogni sua parola fa il giro del mondo e, secondo le rivelazioni, c’è un buon terzo della popolazione Usa che non è discorde con la sua tesi sulla rigged election del 2020. Punti di partenza che da soli non bastano a spiegare, però, le ragioni di un consenso che non sta sgretolandosi. Un elemento ulteriore è il fatto che le accuse rendono Trump capace di sfruttare una rendita di posizione legate all’uso politico, interno al partito, delle cause giudiziarie. Un sondaggio della CBS ha mostrato che il 76% degli elettori repubblicani ritiene una causa politica l’incriminazione di Trump per la detenzione di documenti classificati a New York e il 61% ha dichiarato di non aver cambiato il suo giudizio su The Donald dopo questa serie di incriminazioni. Il Partito Repubblicano è pienamente diventato il Trump Old Party: un frutto della polarizzazione politica americana, e una causa del suo ulteriore rafforzamento.
In una politica sempre più polarizzata, dunque, Trump obbliga i suoi avversari a schierarsi sulla dicotomia “o con me o contro di me”. E rafforza la sua rendita di posizione. Inoltre, la sua immagine appare agli occhi del partito associata più all’exploit del 2016 contro Hillary Clinton che alla sconfitta del 2020 contro Joe Biden. Di fatto Trump potrebbe arrivare alle presidenziali 2024 da unico vincitore repubblicano di una contesa contro i Democratici in vent’anni. E di trascinatore di un’estensione della base elettorale del partito in un campo che può favorirlo.
Sottovalutata nel dibattito, infatti, è la presenza di sacche crescenti di consenso tra la minoranza latina, decisiva in molti Stati, nell’elettorato di Trump e dei Repubblicani come portato dell’azione presidenziale di The Donald. Una svolta di cui anche lo stesso Ron De Santis ha beneficiato in Florida. Una delle migliori analisi accademiche sul comportamento di voto latino nel 2020 da parte degli scienziati politici Angela Ocampo, Angie Gutierrez e Sergio Garcia-Rios ha rilevato che la preoccupazione dei latinoamericani per l’economia e la visione sul tema di Trump hanno portato a grandi acquisizioni di elettorato in un campo storicamente democratico nel 2020 e nelle midterm 2022. Gli autori notano che “l’ex presidente Trump è stato in grado di utilizzare il suo background imprenditoriale per convincere circa il 10% in più di latinos del solito a votare repubblicano a causa dell’incertezza economica che il paese ha affrontato” e questo potrebbe ripetersi nelle prossime primarie. Npr ha citato il Wisconsin come teatro di una possibile rimonta repubblicana trainata dai latini di cui Trump potrebbe essere il regista.
La popolarità di The Donald, chiaramente, va messa in raffronto con la prospettiva che una volta ottenuta la nomination la sua ennesima scalata al partito possa scontrarsi con un bipolarismo netto e penalizzante nei suoi confronti. E che gli oltre 74 milioni di voti del 2020, non sufficienti a battere Biden, possano essere solo un ricordo. Tale eventualità esiste ma riguarda un’altra partita che i repubblicani dovranno porsi a primarie concluse. All’elettorato del partito Trump piace e, soprattutto, non sembra esserci un controcanto alla sua voce. Questo è il vero punto che dovrebbe preoccupare il Gop: le uniche voci che possono esprimersi con successo sembrano essere quelle più radicali e a destra di Trump, segno di un pluralismo di fatto inesistente sul piano interno. Da maestro di marketing, Trump ha cambiato i bisogni degli elettori, il suo pubblico, all’interno del partito prima di offrire risposte. E fino a prova contraria i fatti sembrano dargli ragione.
(* analista geopolitico ed economico)
Andrea Muratore, bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per ‘Inside Over’ e svolge attività di ricerca presso il CISINT – Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.