di ANTONIO GOZZI
La nascita degli Stati Uniti d’America, figlia della vittoriosa Guerra rivoluzionaria contro la Gran Bretagna (1775-1783), fu storicamente segnata dall’assunzione, da parte del nascente Stato Federale, dei debiti degli Stati dell’Unione.
È interessante ricordare questa vicenda e coglierne i tratti essenziali per confrontarla con ciò che sta succedendo oggi in Europa dopo la ‘guerra’ del Covid-19, dove il tema dei debiti degli Stati membri, delle condizioni della loro restituzione, di un’eventuale parziale ‘federalizzazione’ degli stessi è al centro del dibattito.
In America la guerra di liberazione dalla Gran Bretagna era stata finanziata dall’emissione di titoli di debito sovrano, che però era in capo ai singoli Stati, e che quindi i singoli Stati avrebbero dovuto ripagare. Vi erano Stati che si erano indebitati più di altri e in maniera eccessiva e che essendo insolventi cercarono di risolvere il problema o ricorrendo alla svalutazione della moneta e con ciò provocando grande instabilità economica, o con l’aggravamento della tassazione generale, il che causò grande instabilità politica sfociata in disordini civili e vere e proprie rivolte popolari.
Fu in quel momento che i federalisti di Alexander Hamilton riuscirono a convincere gli Stati membri e il nascente Stato Federale a risolvere il problema alleviando, almeno parzialmente, il debito di guerra.
Furono due le principali motivazioni dei federalisti per ottenere il consenso su questo obiettivo: la prima fu il far riconoscere che il debito era stato fatto per far fronte ad una causa comune, l’indipendenza; la seconda fu indurre la presa di coscienza che instabilità politica ed economica avrebbero ben presto fatto abortire il sogno degli Stati Uniti d’America.
E così dopo l’approvazione della Costituzione del 1787 il debito dei tredici Stati costituenti fu assunto dalla Federazione, sia che fossero Stati creditori che Stati debitori. Il debito dei primi venne alleviato e quello dei secondi pagato attraverso titoli del debito federale.
La riflessione su questa storia è molto interessante per il confronto con ciò che sta succedendo in Europa dopo l’esplosione dell’epidemia di Covid-19, ed in particolare per cercare di comprendere la portata e le ragioni della svolta nelle politiche dell’Unione a favore degli Stati membri, per la prima volta da molto tempo segnate da un forte impulso di solidarietà nei confronti dei Paesi più poveri e più colpiti. Una svolta non scontata, piena di contrasti e dilemmi ma finalmente in atto.
La vicenda americana aiuta a comprendere anche queste difficoltà e dilemmi. Anche in America, in diverse fasi della storia degli Usa, gli Stati più ricchi hanno recalcitrato quando si sono trovati davanti alla decisione di dover rinunciare a una parte della loro ricchezza per aiutare gli Stati più poveri e l’esito della scelta non è mai stato scontato.
Nonostante l’omogeneità culturale e linguistica e l’epopea della fondazione dello Stato attraverso una guerra di liberazione, elementi non presenti nella costruzione europea, anche negli Usa vi sono stati momenti in cui, si direbbe oggi, è prevalso ‘l’egoismo’ degli Stati e non si è riusciti a far scattare una solidarietà federale.
Ad esempio verso la metà dell’800 una serie di Stati molto indebitati chiese che il debito venisse assunto a livello federale in analogia a quanto avvenuto dopo la Rivoluzione fondativa, ma il Senato federale si oppose duramente alla proposta sostenendo la tesi che una simile assunzione sarebbe stata ingiusta in quanto costringeva gli Stati virtuosi a sobbarcarsi oneri che gli stessi non volevano, e incentivava gli Stati indebitati a continuare in politiche non responsabili di indebitamento eccessivo.
In altri momenti invece, in particolare nel periodo rooseveltiano dei primi anni ’30 del secolo scorso, dopo la grande depressione del ’29, lo spirito di solidarietà, la redistribuzione delle risorse tra i vari Stati, gli interventi federali per rilanciare gli investimenti, la realizzazione di infrastrutture, per alleviare la disoccupazione e rilanciare lo sviluppo, specie negli stati più poveri, riprese vigore e segnò nuovamente una svolta nella storia degli Usa e del mondo.
Ciò che mi interessa sottolineare è che in questa storia americana, ma anche in quella dell’Unione Europea che sembra seguire lo stesso canovaccio, motivazioni ideali e valori si intrecciano inestricabilmente con gli interessi economici nazionali e federali.
Non c’è nulla di strano in tutto ciò e anzi mi sembra saggio realismo riconoscere questa complessità, e rifuggire l’insopportabile retorica che per decenni ha rappresentato l’Unione Europea come un esempio per il resto del mondo, quando al suo interno in realtà si consumavano sordi conflitti tra i vari Stati membri; conflitti silenziati dall’opera di una sterminata burocrazia guardiana capace soltanto di declinare l’ideologia dell’austerità ordo-liberista e di un mercato senz’anima.
Nei consessi plurinazionali, a maggior ragione in Europa dove molte nazioni hanno una storia antichissima fortemente identitaria, che non può essere spazzata via da un giorno all’altro, anche le scelte solidali passano non solo per le spinte ideali, ma soprattutto per attenti calcoli di convenienza economica relativi ai singoli Stati.
Non vi è dubbio che l’Italia, ma anche la Spagna e forse la stessa Francia, hanno tutto l’interesse a essere aiutati dall’Unione Europea soprattutto in un momento così difficile. Ma perché i cittadini tedeschi, che con le loro tasse pagheranno buona parte di questi aiuti, dovrebbero farlo? Parliamo di cittadini tedeschi perché come già scritto su queste pagine, con tutto il rispetto, non saranno gli olandesi o i danesi a determinare le politiche dell’Unione.
Vi è stato e vi è un fortissimo dibattito interno in Germania a dimostrazione che la rappresentazione caricaturale spesso usata dai sovranisti nazionali dei tedeschi come brutti e cattivi è ridicola. Al contrario, in quel Paese si sono levate voci autorevolissime a sostegno della solidarietà europea, sostenuta anche da una vasta coalizione di Paesi tra cui la Francia, l’Italia, la Spagna, il Belgio ecc.
Ma la forza di Angela Merkel è stata quella di spiegare e far capire ai suoi cittadini elettori che una forte crisi italiana avrebbe avuto conseguenze catastrofiche per l’economia della Germania e di tutta l’Unione Europea, e che quindi la solidarietà non era solo giusta moralmente ma anche funzionale agli interessi dell’economia tedesca.
Lo sforzo dell’Unione è veramente impressionante, e in pochi mesi l’Europa ha fatto ciò che non aveva mai fatto nei cinque anni successivi alla grande crisi finanziaria del 2008-2009.
Per rimanere a noi, a disposizione dell’Italia a Bruxelles ci sono aiuti anticrisi per oltre 260 miliardi di euro, pari al 15% del suo Pil: 20 miliardi del fondo Sure per disoccupazione e cassa integrazione, 36 miliardi del fondo Mes per le spese sanitarie, 35 miliardi della Bei per finanziamenti alle imprese, 170 miliardi del Recovery Fund di cui 80 di sovvenzioni da non restituire. Se si aggiunge lo scudo della Bce con gli acquisti di titoli di Stato italiani per oltre 110 miliardi da qui a fine anno, che proteggono il nostro spread e il nostro debito dalla speculazione internazionale, e i probabili ulteriori interventi che seguiranno si potrebbe centrare anche il raddoppio: quasi 500 miliardi di euro pari al 30% del Pil nazionale. Uno sforzo poderoso.
Certo siamo distanti dai 1200 miliardi di euro a disposizione della Germania per sostenere la sua economia, ma questa differenza si deve soprattutto alle condizioni della finanza pubblica tedesca incommensurabilmente migliori di quella italiana.
Dinanzi a questa svolta e a questi numeri i sovranisti, vecchi e nuovi, balbettano o sono rimasti senza voce. Ve li ricordate Salvini e Di Maio che all’epoca della costituzione del governo giallo-verde parlavano di uscita dall’Euro?