di ANTONIO GOZZI
L’edizione di questa settimana di ‘Piazza Levante’ è largamente dedicata all’emergenza del Coronavirus. Lo facciamo con la nostra consueta attitudine alla riflessione e all’approfondimento. Siamo convinti del fatto che, dall’inizio della vicenda, questo sia il momento più serio e delicato e ciò per una serie di ragioni:
- i contagi stanno aumentando sia in Italia che all’estero e ciò conferma l’alta e veloce capacità di diffusione del virus, ma anche, fortunatamente, la sua bassa letalità;
- c’è e ci sarà nei prossimi giorni e settimane un problema molto serio di disponibilità nelle strutture ospedaliere (sia pubbliche che private ) di posti letto di terapia intensiva. Questo problema, se non risolto rapidamente, potrebbe aumentare il livello di mortalità colpendo duramente quella parte di contagiati che versano in condizioni gravi e necessitano di trattamenti intensivi;
- incominciano a farsi sentire in maniera pesante gli effetti economici dell’epidemia. Questi effetti sono per ora limitati ad alcuni settori di attività (turismo con alberghi e ristorazione, compagnie aeree, industria culturale) ma ben presto, se la situazione non torna verso la normalità, rischiano di provocare in Italia e in tutto il mondo una grave crisi finanziaria e recessiva simile a quella del 2008-2009 (crisi dei mutui subprime, fallimento della banca Lehman Brothers ecc,).
Le questioni su cui concentrarsi sono quindi sostanzialmente due: una sanitaria e una economica.
Partiamo dalla prima.
Bisogna fare tutto il possibile per contenere e ridurre al minimo il contagio. E ciò per evitare l’intasamento degli ospedali, la saturazione dei posti letto di terapia intensiva e il conseguente incremento di mortalità soprattutto nella popolazione anziana che è quella più a rischio.
Per ottenere questo risultato bisogna seguire le indicazioni delle autorità scientifiche e sanitarie e delle autorità politiche magari chiedendo a queste ultime di coordinarsi meglio di quanto finora avvenuto.
Occorre che ricordiamo tutti che nel nostro ordinamento, nel caso di epidemie, il dominus delle decisioni è il Governo della Repubblica ed in particolare il Ministro della Sanità, con buona pace di Governatori regionali e Sindaci che devono scrupolosamente attenersi alle decisioni dell’autorità ministeriale. È così, d’altro canto, in tutti i paesi evoluti dove, in caso di epidemie e /o pandemie le decisioni vengono fortemente centralizzate nell’interesse di tutti. È fondamentale che ci sia un’unica e chiara linea di comando altrimenti è il caos.
Noi liguri, che siamo marinai, diciamo che a bordo della nave non ci possono essere più comandanti perché, in questa situazione, la nave finisce certamente sugli scogli.
Spesso le indicazioni delle attività scientifiche e sanitarie sono dure ma sono basate su studi approfonditi, protocolli internazionali pensati e sperimentati con l’obiettivo del male minore. Il nostro sistema sanitario nazionale, che ancora una volta sta dando buona prova di sé, è perfettamente in grado di attuare tali direttive.
Come in tutte le crisi, la buona e corretta comunicazione è essenziale. Occorre da parte delle autorità pubbliche dire la verità ma allo stesso tempo mostrare autorevolezza e serenità per evitare nella popolazione paure, o vere e proprie fobie e stati di psicosi.
È ciò che i bravi capi azienda fanno nei momenti di difficoltà e crisi. In quei momenti tutti guardano al capo come all’àncora di salvezza e lui deve essere il più calmo e il più lucido di tutti, perché le sue truppe di questo hanno bisogno, e sanno che senza una forte e autorevole guida nelle difficoltà non si sopravvive.
Le autorità pubbliche italiane (nazionali e regionali) nella vicenda del Coronavirus finora non sono state impeccabili in termini di comunicazione, oscillando tra un allarmismo iniziale forse eccessivo e un atteggiamento improvvisamente rassicurante in un secondo momento di cui molti non si sono fidati e non si fidano.
Passiamo alla seconda questione: l’economia.
Prima considerazione generale: ancora una volta, questa nuova vicenda del Coronavirus mostra la fragilità di un mondo fortemente interconnesso e globalizzato.
È l’altra faccia della medaglia. La velocità, diffusione, potenza dei collegamenti e degli interscambi che ha cambiato in meglio il mondo e le condizioni di vita di miliardi di persone ha, come contropartita, la velocità e pervasività della diffusione delle crisi.
La complessità del mondo attuale, il moltiplicarsi di attori e di teatri, il venir meno o l’affievolirsi della centralità e del primato euro-atlantici e del ruolo internazionale degli Usa, il comparire di nuove potenze prima fra tutte la Cina, la velocità travolgente dell’innovazione tecnologica e digitale rende tutto maledettamente più difficile e fragile.
Mentre sulle crisi economiche e finanziarie propriamente dette, primarie e non derivate, si sono sviluppati negli anni tecnologie e protocolli di gestione sofisticati e abbastanza efficaci (a partire dal ruolo delle Banche Centrali, magnificamente rappresentate dal whatever it takes di Mario Draghi) non so dire se sulla connessione epidemie/economia o meglio su come fronteggiare le drammatiche conseguenze delle epidemie su imprese, mondo del lavoro, attività formative, trasporti, commercio internazionale si abbiano linee di azione chiare, condivise, disponibili. La ricerca interdisciplinare medico/economica non mi pare molto sviluppata al riguardo e ciò mostra che la comunità scientifica, molto preparata e reattiva sul piano strettamente medico e sanitario, non lo è altrettanto su quello delle misure economiche necessarie a fronteggiare crisi di questo tipo. Forse sarà questa l’occasione per sviluppare e potenziare una disciplina di cui nel mondo iperconnesso ci sarà sempre più bisogno, una disciplina che cerca il delicato equilibrio di misure atte a proteggere la popolazione e allo stesso tempo a non arrecare troppi danni all’economia.
Come si è detto, le imprese più colpite in Italia sono quelle del settore turistico (alberghi e ristorazione), del settore dei trasporti e delle linee aeree, e l’industria culturale (eventi, teatri, cinema, musei).
Nell’ipotesi di una pandemia prolungata, che cioè non si arresti nei prossimi sei/dieci mesi, secondo uno studio della Cerved la crisi si estenderebbe drammaticamente a tutti gli altri settori dell’economia e un’azienda su dieci in Italia sarebbe a rischio default.
Particolarmente colpiti oltre ai settori sopraddetti sarebbero anche quelli manifatturieri e in particolare quello delle costruzioni, già indebolito dalla crescita stentata o nulla degli ultimi anni, ed il tessile e l’abbigliamento, penalizzati dalle difficoltà sperimentate con la Cina sia con riferimento alla caduta della domanda in quel paese sia con riferimento alla continuità di forniture da quel paese.
Caduta verticale dei ricavi, lievitazione dei debiti a breve per finanziare il circolante, problemi di gestione dei cicli produttivi per assenza di personale, impossibilità di ricorrere per tutti i ruoli al telelavoro, sono le emergenze che si stagliano di fronte alle imprese industriali italiane.
Di fronte questo quadro assai preoccupante per ora disponiamo solo di idee appena abbozzate: la richiesta all’UE di poter sforare i parametri del deficit, vaghe ipotesi di utilizzo della leva fiscale e monetaria. Come, quando e per chi attivare questi strumenti per il momento non è dato sapere.
Speriamo che un governo che, come il precedente, non ha citato una sola volta la parola ‘impresa’ nel suo programma riesca a fare meglio di quanto è avvenuto nei giorni scorsi, all’inizio dell’emergenza, quando le imprese sono state lasciate completamente sole.
In conseguenza di ciò, le ordinanze finora in vigore hanno generato nelle aziende comportamenti ‘fai da te’. Fuori dalle zone rosse tutte le attività produttive hanno continuato a lavorare ma con difficoltà crescenti sotto vari aspetti: gestione delle visite, attività formative e di reclutamento del personale, trasferimenti e viaggi di lavoro, ingresso nelle fabbriche di operatori terzi, partecipazione a mostre e fiere regolati di volta in volta in base al buon senso e alle percezioni dei singoli ma senza un coordinamento generale.
Le aziende si sono mosse ovviamente con procedure di tutela delle persone e dei propri dipendenti in particolare, ma senza indirizzi chiari e comuni a tutti non potranno andare avanti a lungo.