di GIORGIO ‘GETTO’ VIARENGO *
Vorrei omaggiare tutti i lettori di ‘Piazza Levante’ di una bottiglia d’acqua: un gesto prezioso, certamente simbolico. Basti pensare che molto spesso, nel linguaggio mediatico, l’acqua è chiamata “l’oro blu”.
Proviamo ad indagare quanto il prezioso liquido ha segnato l’esistenza dell’uomo nei luoghi dove viviamo. La più remota antropizzazione organizzata del nostro territorio, tale da farne rilevare una comunità a sé stante, data dall’Età del Ferro. Si tratta dei Liguri della necropoli chiavarese, che utilizzavano l’acqua del bacino imbrifero del Rupinaro non solo per la loro vita quotidiana, ma anche nella procedura di incinerazione, che prevedeva un lavaggio rituale delle ossa prima che queste potessero essere deposte nelle cassette litiche per la loro conservazione.
Poi per secoli l’acqua dei grandi bacini imbriferi, specie quello dell’Entella, ha riversato una quantità tale di materiale litico, eroso dalle vallate interne, da creare la grande piana alluvionale. Oggi noi viviamo proprio su questa secolare creazione dell’acqua che, per la sua natura e composizione, ci ha regalato l’oro blu perenne conservato nel suo ventre, il prezioso liquido che per secoli abbiamo attinto con le “sighêugne” e riversato negli orti e nei coltivi, portato nelle abitazioni per tutte le necessità umane.
Non possiamo inoltre trascurare il richiamo ad una produzione preziosa del nostro territorio: l’acqua sorgiva che sgorga e viene imbottigliata in Val Graveglia e presso la Forcella.
Può sembrare un richiamo semplice e forse banale, ma pensare all’acqua ed al suo significato storico sul territorio, esplorare la sua presenza e i suoi usi, può aiutarci a comprendere come il nostro paesaggio si sia evoluto e specializzato. L’acqua ed il territorio sono legati saldamente dalla doppia presenza del liquido elemento: l’acqua del mare e quella di terra. In questa doppia presenza si costruisce un ciclo vitale indispensabile alla vita dell’uomo, un cerchio biologico unico ed essenziale che abbraccia il Tigullio. La terra del chiavarese e tutta la valle dell’Entella vivevano di questa caratteristica naturale che è diventata presenza stabile delle nostre popolazioni. La piana dell’Entella utilizzava le acque di falda, alimentate da un amplio bacino imbrifero, le popolazioni più interne utilizzavano le fonti sorgive.
Qui si impone una prima constatazione storica: quanti sono i luoghi che utilizzano la parola acqua per indicare un toponimo? Basta prendere una carta e si può constatare quanto l’acqua abbia indicato un’appartenenza: Acquafredda, Acqua di Ogno, Fontanabuona, Acqua di Sopra, Acqua di Sotto, Isola e Isolona; per non dimenticare l’uso antichissimo della radice “asco”: indicante una terra nelle vicinanze di un corso d’acqua. Insomma, la nostra è terra d’acqua! Questa è stata attinta con le straordinarie macchine inventate e costruite dai nostri antichi contadini, le “sighêugne”, semplici e geniali pozzi capaci di portare l’acqua di falda al piano del campo e dell’orto. Poi arrivò l’energia elettrica, che nei nostri invasi interni era prodotta con l’acqua, e le vecchie “mazzacavalle” vennero abbandonate per distribuire con capaci pompe il prezioso oro blu.
Nel corso dell’Ottocento la nostra è terra colpita dal “cholera morbus”: l’epidemia che gli specialisti indicano come portato dell’urbanizzazione associata all’uso di acque non più potabili. Un manifesto pubblicato il 6 agosto del 1854 informava le popolazioni locali del rischio “delle esalazioni fetide e insalubri”; il severo richiamo era giustificato dal ricordo dell’epidemia del non lontano agosto 1835, quando il malanno colerico sfociò in tensioni popolari che additavano nuovamente la mano degli untori: ove si credeva che… “la cagione di tale morbo non stesse già nella natura, ma fosse frutto d’iniqui disegni, con acque contaminate da veleno” ad opera di mano umana. Così i manifesti informavano di un’epidemia che vedeva l’acqua “corrotta” e fonte di morte.
Per realizzare il primo vero acquedotto, e permettere d’avere l’acqua nelle case, senza l’uso dei pozzi o delle pompe, si dovrà attendere domenica 19 luglio del 1925, quando veniva posata la prima pietra di un moderno ed efficiente acquedotto che giunge sostanzialmente immodificato ai nostri giorni.
Questi pochi dati storici ci permettono di capire quanto la naturale presenza dell’acqua abbia reso possibile la collocazione delle nostre comunità e la loro espansione sul territorio.
Altra affascinante riflessione è quella sul significato culturale ed etnografico del prezioso liquido. Qui ritroviamo immagini e significati importanti: le ritualità dei bagni nelle acque dell’Entella nel giorno di San Giovanni, come riaffermazione del gesto “battesimale” più antico; la purificazione nelle arcaiche formule della “sperlenghêia”, dove il malanno veniva buttato e trasferito nell’acqua; la richiesta di “acque fresche e cristalline” nel canto del maggio ancora oggi praticato nelle nostre colline. L’elenco potrebbe continuare e permetterci di comprendere come l’acqua sia essenzialmente la nostra vita e la vita della natura stessa.
I “nostri vecchi” lo sapevano bene, per questo la cercavano, la raccoglievano, la preservavano, la incanalavano, tutte attività volte a mantenere vita e benessere. Quando le litanie dei santi, nel giorno delle Rogazioni, raggiungevano il corso d’acqua, la popolazione chiedeva particolari intercessioni perché l’acqua scorresse placida e ricca tutto l’anno.
Oggi non si vuole dimenticare quel significato storico, di come l’acqua abbia permesso millenni di presenza umana nel nostro Tigullio, e occorre ribadire che tutti i prodotti delle coltivazioni sono possibili con l’acqua e la sua qualità: un segno di vita del territorio e della presenza del prezioso naturale oro blu nella terra dove noi viviamo.
(* storico e studioso delle tradizioni locali)