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Giovedì 25 settembre 2025 - Numero 393

Bisogna dire chiaramente che il Green Deal europeo è stato un errore e va profondamente rivisto. Vi spieghiamo il perché

L’estremismo del Green Deal ha quasi ucciso l’industria di base da cui dipendono tutte le filiere manifatturiere a valle, senza alcun concreto risultato sul fronte della riduzione delle emissioni e della lotta al climate change
Frans Timmermans, olandese, socialista, già Vice-Presidente della Commissione europea con delega al cosiddetto ‘Green Deal’
Frans Timmermans, olandese, socialista, già Vice-Presidente della Commissione europea con delega al cosiddetto ‘Green Deal’
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di ANTONIO GOZZI

Mario Draghi nella sua ultima comunicazione alla Conferenza UE di alto livello ha avuto il coraggio di dire che la decisione della Commissione Europea di mettere al bando i motori endotermici a partire dal 2035 è stata assunta su basi che non esistono più. “Gli obiettivi fissati per il 2035 si basano su presupposti che non corrispondono più alla realtà attuale del mercato e dello sviluppo tecnologico”.

L’idea che la scadenza del 2035 avrebbe generato un “circolo virtuoso”, con investimenti in infrastrutture di ricarica, tecnologia (batterie, microchip) e innovazione che avrebbero poi fatto diminuire i costi dei veicoli elettrici, secondo Draghi non si è realizzata, almeno nei tempi e nella scala previsti.

Gli obiettivi fissati per il 2035 “potrebbero rivelarsi irrealizzabili”, e se l’Europa insiste su questi target si rischia di dare un vantaggio competitivo ad altri attori globali, in particolare alla Cina.

Draghi ha auspicato che la normativa futura segua “un approccio tecnologicamente neutrale” prendendo in considerazione non solo i veicoli elettrici ma anche alternative con emissioni prossime allo zero (combustibili alternativi sintetici e biocarburanti e, se economicamente sostenibile, l’idrogeno).

Le considerazioni svolte dall’ex Governatore della BCE ed ex premier italiano a proposito di uno dei pezzi fondamentali del cosiddetto Green Deal sono state persino diplomatiche, o comunque prudenti, perché Draghi non ha potuto o non ha voluto dire che il Green Deal e tutte le norme che ne sono seguite a partire dalla strategia sull’auto e al sistema ETS (Emissions Trading System e cioè il principale strumento varato dalla UE per ridurre le emissioni di gas serra) sono state un clamoroso errore.

È facile dimostrare questo assunto se si ha il coraggio di analizzare i dati senza occhiali ideologici.

L’Europa è oggi responsabile di poco più del 5% delle emissioni mondiali di CO2. Di queste emissioni meno della metà sono causate dall’industria, la più parte è causata dalle abitazioni (riscaldamenti) e dai trasporti. Nel mondo le emissioni di CO2 crescono di circa l’1,5% l’anno. I Paesi più grandi emettitori sono la Cina, gli USA, l’India e la Russia, tutti Paesi che non hanno aderito al protocollo di Kyoto, e/o ai successivi accordi di Parigi e di Doha. Si tratta di accordi internazionali vincolanti in cui i Paesi industrializzati si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra.

Se con un colpo di bacchetta magica tutte le industrie europee chiudessero, con le conseguenze economiche e sociali interne che è facile immaginare, a livello mondiale in termini di emissioni di CO2 e di lotta al cambiamento climatico non cambierebbe nulla.

Gli europei, con un misto di presunzione e di buone intenzioni, che se non tengono conto della realtà spesso generano disastri, hanno creduto, con le proprie regole molto ideologiche volte alla riduzione delle emissioni, di essere un modello virtuoso che tutto il mondo avrebbe seguito e hanno pensato che dare l’esempio fosse la missione storica dell’Europa.

Non solo ciò non è avvenuto, nel senso che tutte le più grandi aree economiche del mondo fuori dall’Europa non hanno seguito le regole dell’UE, ma l’estremismo ambientalista dell’era Timmermans, con la Commissione Von der Leyen 1, ha provocato gravi processi di deindustrializzazione che hanno indebolito enormemente la competitività dell’industria specie nei settori di base. 

In altre parole l’estremismo del Green Deal ha quasi ucciso l’industria di base da cui dipendono tutte le filiere manifatturiere a valle, senza alcun concreto risultato sul fronte della riduzione delle emissioni e della lotta al climate change.

Il tema della CO2 e del climate change è infatti globale, e non può riferirsi ad una sola regione del mondo. Per questo, nonostante la riduzione di emissioni dell’industria europea, determinate dall’adozione di migliori tecnologie ma anche da forti diminuzioni delle produzioni, a livello mondiale nulla cambia, e ciò rende inutili gli sforzi e i sacrifici europei. L’unico effetto pratico che è stato innescato è quello di un progressivo processo di deindustrializzazione soprattutto nei settori di base.

Pochi dati al riguardo.

Nel 2010 la produzione di acciaio nell’UE era di 173 milioni di tonnellate, nel 2023 è stata di 126 milioni di tonnellate (-27%). Nello stesso periodo l’occupazione nel settore siderurgico è diminuita di 100.000 unità. L’entrata in vigore della CBAM (il dazio ambientale introdotto per compensare la perdita di competitività dell’industria europea dovuta all’ETS) al 1.1.2026, con la scomparsa delle quote gratuite di CO2, metterà praticamente fuori gioco tutti gli altiforni europei da cui dipende ancora il 60% della produzione di acciaio in Europa e in particolare quello per l’auto.

Nella chimica di base si registrano forti diminuzioni della produzione e dell’occupazione negli ultimi 15 anni, così come è avvenuto nei settori del cemento e del vetro. 

Solo negli ultimi due /tre anni l’occupazione nei settori energivori europei (acciaio, chimica di base, cemento, vetro, carta) è scesa di oltre il 10%, mostrando che l’altissimo costo dell’energia in Europa, provocato anche dalla regolamentazione dell’ETS, toglie competitività a questi settori e li porta al declino produttivo e occupazionale.

Inoltre le imprese ad alta intensità energetica hanno problemi di margini bassi dovuti all’alto costo dell’energia e al peso delle normative come ETS e CBAM, e ciò rende più difficile investire in tecnologie “verdi”. Il futuro di queste imprese in Europa è assolutamente incerto e molte sono a rischio di scomparsa.

Ma senza i settori dell’industria di base che alimentano tutte le filiere manifatturiere a valle non si riesce a capire come si possa parlare di competitività e di autonomia strategica dell’Europa.

Se andiamo al settore automobilistico colpito direttamente dalla scelta ideologica della elettrificazione e dal rifiuto da parte della Commissione nell’era Timmermans del concetto di neutralità tecnologica (e cioè dell’uso di tutte le tecnologie disponibili per la decarbonizzazione e non solo dell’elettrico) i dati sono drammatici.

In Germania negli ultimi 10 anni vi è stata una riduzione della produzione del settore auto del 31% (da 6 milioni di veicoli prodotti nel 2015  a 4,1 nel  2024).

In Francia la produzione di veicoli nei primi anni 2000 era di 3 milioni di vetture l’anno, nel 2024 è stata di 910 mila veicoli!!

Gli effetti occupazionali si sono fatti sentire e sono drammatici. Si ipotizza una perdita di occupazione del settore auto europeo complessivamente inteso negli ultimi 3 anni di quasi 200.000 addetti. Pochi giorni fa il Presidente dell’associazione dei produttori europei dell’indotto auto ha dichiarato che il settore ha perso, nel 2024 , 80.000 addetti e che si stima ne perderà altri 20.000 nel 2025! Ciò è anche la conseguenza del fatto che per produrre un’auto elettrica ci vogliono dieci volte meno componenti di quelli necessari per un auto con il motore endotermico.

Se si fa la somma dei posti di lavoro persi nei settori energivori e di base dell’industria europea negli ultimi 10 anni, e se si comprende all’interno di questi anche il settore auto, non si è lontani da una perdita di oltre 600.000 addetti, ben superiori a quelli creati finora dalle industrie “verdi” di cui si hanno stime molto approssimative. Il grosso dell’occupazione il Green Deal europeo lo ha creato in Cina: perché quel Paese è leader in tutte le tecnologie verdi (pannelli fotovoltaici, batterie, inverter, pale e turbine eoliche e veicoli elettrici) e ciò ha già creato nuove, gravi, dipendenze strategiche.

La Commissione Europea ha recentemente pubblicato i dati relativi alla perdite di posti di lavoro in Europa tra il marzo del 2019 e il marzo del 2024 di tutta l’industria manifatturiera europea: si tratta di 853.000 addetti di cui 278mila in Polonia, 144mila in Romania, e 129mila in Germania. Si stima che alla fine del 2025 la perdita di addetti nella manifattura supererà 1 milione di unità.

Bisogna cambiare rotta rapidamente senza negare l’obiettivo di decarbonizzare la nostra economia ma rimettendo in discussione strumenti, tempi e metodi di un’era di estremismo ideologico profondamente permeato di uno spirito anti industriale.

La madre di tutte le battaglie è l’abolizione dell’ETS, che è uno strumento figlio della congiunzione tra estremismo ambientalista e finanziarizzazione, e che oggi in Europa provoca un extra costo energetico di 25 euro a MWh. Dopo 20 anni di onorato servizio il sistema dell’ETS è diventato una mera tassa carbonica sulla schiena delle imprese industriali che ha provocato una perdita verticale di competitività dell’industria europea ed ha obbligato la Commissione a introdurre il CBAM, vale a dire un dazio ambientale sulle importazioni da Paesi che non pagano le CO2. Come tutti i dazi anche il CBAM provocherà spinte inflazionistiche e distorsioni di varia natura nel commercio internazionale, ma fino a questo momento non ci sono segni che la Commissione voglia almeno ritardarne l’entrata in servizio.

Conclusione: quando qualcuno, tra qualche tempo, scriverà un libro sulla storia europea degli ultimi 15 anni, racconterà di un disastro economico e sociale di grandi dimensioni provocato da scelte prive di qualunque razionalità vera. Sarà interessante comprendere perché si è arrivati a questo punto; ma sarà soprattutto interessante capire se negli anni successivi l’Europa sarà riuscita a uscire da questo disastro.

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