di ANTONIO GOZZI
La sensazione che continuo a provare è che ci sia a livello europeo una marcata sottovalutazione dei gravi problemi che ci troviamo davanti e che più volte ho ricordato da queste pagine. Nonostante da più parti si comincino a dare segnali di allarme sulla fragilità della nostra economia e sull’incertezza delle prospettive geo-politiche, sembra che la politica e le istituzioni fatichino a trarne le conseguenze.
Ciò che ad esempio francamente colpisce nelle trattative tra le forze politiche europee e tra i capi di Stato e di Governo per la formazione della nuova maggioranza che reggerà gli organi dell’Unione, a partire dal Presidente della Commissione Europea, è la totale assenza, almeno per quello che si sa ufficialmente, di riferimenti e di contenuti programmatici.
Una maggioranza di Popolari, Socialisti, e Liberali (Renew) aritmeticamente esiste, ma pare non dare margini di sicurezza per il voto sul Presidente della Commissione, l’unico voto veramente importante del Parlamento europeo.
Si temono franchi tiratori che potrebbero far saltare il rinnovo della Presidenza per Ursula von der Leyen, la candidata oggi più accreditata per questo ruolo.
E allora per evitare questo rischio ci sono stati tentativi di due allargamenti di maggioranza possibili ma alternativi tra di loro: quello al gruppo dei Conservatori capeggiato da Giorgia Meloni, che è diventato negli ultimi giorni il terzo gruppo per numero di parlamentari dopo i Popolari e i Socialisti; o quello al gruppo dei Verdi.
Una parte dei Popolari tirava per la prima ipotesi, i Socialisti per la seconda. Ma mentre scriviamo la situazione è ancora fluida anche se i Socialisti hanno posto il veto all’ingresso dei Conservatori e sembra si vada verso una situazione che non prevede, almeno ufficialmente, alcun allargamento di maggioranza. Capiremo meglio gli sviluppi nei prossimi giorni.
È del tutto chiaro che dietro ai due possibili allargamenti vi erano due ipotesi programmatiche diverse almeno riguardo alla questione che, prima dell’invasione russa dell’Ucraina, è stata la più importante e centrale: green deal, transizione energetica, decarbonizzazione.
Uno schieramento comprendente i Verdi avrebbe rappresentato, di fatto, una sorta di continuità dell’era Timmermans, il potente socialista olandese, vice-presidente della Commissione, che nell’ultima legislatura ha di fatto dettato l’agenda europea con la costruzione di un impalco normativo e regolamentare sulla transizione molto ideologico, a tratti estremista e molto costoso; un’impostazione che probabilmente l’Europa, nelle condizioni in cui è oggi, non può permettersi.
Contro le forzature e gli ideologismi di questo piano si sono levate, negli ultimi tempi, moltissime voci non solo dal mondo dell’economia e dell’industria ma anche da parte degli agricoltori e di molte categorie di consumatori colpite dalle misure della transizione (si pensi ai gilets jaunes francesi, o ai proprietari di case in Italia, dove gran parte del patrimonio abitativo è antico e non si presta a interventi obbligatori e invasivi di risparmio energetico). Il tema è sempre lo stesso: chi paga i costi della transizione?
Secondo molti osservatori uno schieramento che avesse invece compreso i conservatori avrebbe potuto, forse, farsi maggiore carico delle preoccupazioni espresse da vaste categorie economiche e sociali sulle conseguenze e sui costi di una transizione troppo ideologica ed estremista, rimettendo al centro dell’agenda europea il tema della crescita, della sicurezza strategica e quindi anche di quella economica, delle politiche industriali e di un allentamento delle rigidità e dei vincoli imposti dalla lettura “Timmermans” del green deal.
Se nessuno degli allargamenti ci sarà, come probabile, restano le incognite programmatiche.
Sarebbe bello che, oltre alla scelta dei nomi dei vertici delle Istituzioni europee, vi fosse una discussione aperta e trasparente sui contenuti; e sarebbe importante che lo schieramento maggioritario dicesse cosa vuol fare sulle questioni più rilevanti e sul loro significato programmatico, ma purtroppo non è così anche perché il politicismo fa premio sui contenuti.
La politica e la macchina burocratica comunitaria finora in auge (la burocrazia guardiana, come uso definirla) sono impregnate di un mainstream dominante, intendendosi per esso un’esasperazione normativa che rappresenta il vero core business dell’Unione europea, condizionata dall’intreccio di tre estremismi: un estremismo ambientalista e a tratti declinista, un estremismo mercatista e globalista, un estremismo della finanza che ha trasformato anche l’ambiente in un asset class.
Questo approccio che sembra immutabile, e forse lo è per costruzione dell’Unione, è tra le cause della perdita di peso, di crescita, di innovazione che ha caratterizzato l’Europa negli ultimi anni nel confronto con Usa e Cina.
Ed è singolare che la sinistra europea, nella sua stragrande maggioranza, non colga il pericolo derivante dall’intreccio perverso degli estremismi di cui si è detto.
I ceti sociali più deboli che si ribellano agli eccessi dell’ambientalismo, della globalizzazione e della finanza appartengono, storicamente, a un mondo e a un insediamento di sinistra, a partire dagli operai delle fabbriche messe in crisi dalla globalizzazione e dalla transizione. Questi soggetti, sentendosi dimenticati e abbandonati, votano a destra e esprimono con proteste e rabbia la loro contrarietà all’andazzo imposto dal mainstream europeo.
Le forzature sulle politiche green ricordano tanto le reazioni che si scatenarono in molte parti d’Europa 10/15 anni fa sul tema dell’apertura indiscriminata dei flussi migratori. Sono, ad esempio, i quartieri popolari delle città e i loro abitanti che soffrono maggiormente l’impatto di questi flussi non gestiti.
Lavoravo in Belgio a quell’epoca e ricordo la solitudine, a sinistra, di Elio Di Rupo, socialista, già primo ministro belga, figlio di emigrati italiani, che avendo capito il disagio dei ceti più deboli e poveri investiti dagli effetti di flussi migratori indiscriminati, aveva avviato una gigantesca campagna di sicurezza pubblica nelle cittadine della Vallonia più colpite dalla microcriminalità, dallo spaccio e del malessere sociale, a partire da Charleroi.
Se si vogliono salvare le istituzioni democratiche europee bisogna ascoltare questo malessere e questa rabbia e dare una risposta di protezione e di difesa economica, sociale e anche di sicurezza e di ordine pubblico.
Bisogna tornare a investire e a crescere per tornare ad essere inclusivi. Bisogna tornare a creare ricchezza per distribuirla.
Questi sono i grandi temi che dovrebbero essere al centro della discussione europea. Purtroppo finora non è così. Vedremo.