di SABINA CROCE
Gira in questi giorni sul web un video inquietante, che si chiede di diffondere. Nel video compare una videochiamata sullo schermo di un cellulare, due donne che parlano di una ricetta di cucina mentre il marito di una delle due si aggira sullo sfondo. Improvvisamente la donna che dà le spalle al marito, continuando a parlare con lo stesso tono di conversazione, fa un gesto con la mano: un segnale di muta richiesta di aiuto. Un codice per chi non può chiedere aiuto in altro modo, perché il suo persecutore è nella stessa stanza, nella stessa casa, nella stessa vita.
Il video è diffuso da una organizzazione canadese, la Canadian Women’s Foundation, verosimilmente per aiutare le donne intrappolate a casa nel periodo di lockdown.
Il problema è stato reale e drammatico durante la fase 1, con un aumento di richieste di aiuto ai centri antiviolenza italiani fino al 74%. A livello globale, l’OMS ha segnalato che l’obbligo di restare in casa ha triplicato i casi di violenza sulle donne. Il nostro piccolo mondo ‘tranquillo’ ha fatto la sua parte, come ci è stato segnalato dal colonnello dei Carabinieri Angelo Gerardi in più di una intervista a questo settimanale.
Oggi che il mondo è giustamente mobilitato contro la violenza razzista della polizia americana nei confronti dei cittadini neri, mi viene amaramente da pensare di non aver mai visto una mobilitazione simile nei confronti di questo massacro silenzioso e continuo che non dà segni di cedimento; un massacro che è tanto più odioso in quanto si esercita all’interno di quella che dovrebbe essere una relazione d’amore, all’interno di mura, fisiche e non, dove sarebbe naturale cercare e ricevere protezione.
Ma oggi che il lockdown è finito, e che forse le donne chiuse in casa col nemico hanno trovato un po’ di sollievo ai loro tormenti, un altro problema si prospetta, e per una fascia molto più ampia della popolazione femminile: la perdita del lavoro.
Non solo perché i posti di lavoro probabilmente si ridurranno per la chiusura di molte attività, ma anche perché tutti i presidii che potrebbero aiutare le donne a tornare a lavorare (asili, centri estivi, camp) stentano a ripartire, soffocati anch’essi da norme talmente stringenti da non consentirne il normale svolgimento.
La libertà e la dignità della donna, proprio come quelle dell’uomo, si fondano sulla possibilità di lavorare. Fino a quando non hanno avuto il divorzio e la possibilità di sostentarsi in modo autonomo molte, moltissime donne hanno subito matrimoni insostenibili, mantenendo una facciata di rassegnata dignità, semplicemente impossibilitate a fare l’unica cosa possibile: andarsene.
In questo Paese in una manciata di anni la vita delle donne è cambiata radicalmente. Ero bambina quando Franca Viola, diciassettenne, rifiutò il matrimonio riparatore: ricordo bene i titoli su tutti i giornali e l’entusiasmo di mia madre; è del 1968 l’abolizione del reato di adulterio (che si riferiva solo all’adultera); del 1970 la legge sul divorzio, del 1975 la riforma del diritto di famiglia che aboliva la patria potestà e istituiva la ‘responsabilità genitoriale’ di entrambi i coniugi; del 1981 l’abolizione dell’attenuante del delitto d’onore nell’uxoricidio (sempre riferito solo all’onore del marito, of course).
Poche essenziali leggi e sentenze, così come l’accesso all’istruzione superiore, a tutti i corsi di laurea e a tutte le carriere, l’accesso ad una contraccezione sicura ed autogestibile, l’interruzione di gravidanza legale in ambiente ospedaliero hanno cambiato la vita delle donne. Tutto imperfetto, certo, tutto perfettibile: ma in pochi anni le donne hanno occupato posti di lavoro che una volta venivano loro negati, se non per legge, per tradizione e per unanime mancanza di consenso sociale. E non se la cavano peggio degli uomini, direi.
Chi ha la mia età troverà in queste parole una ripetizione del passato, che però è giusto ricordare, perché non c’è mai nulla di scontato, soprattutto le conquiste recenti. Così come avevamo date per scontate la fine delle guerre, quella delle malattie infettive e quella della minaccia del fascismo, le nostre ragazze devono oggi custodire le conquiste delle loro madri e nonne, e difenderle con determinazione. Altrimenti, più o meno brutalmente, le perderanno.
Difendiamo quindi gli asili, le scuole e i centri estivi, anche in questi tempi di Covid. Rifiutiamo il concetto che la società oggi si disgrega perché le donne non hanno più voglia di occuparsi dei figli: proviamo a suggerire che la società si salverà dalla disgregazione se ragazzi e ragazze accetteranno di condividere il carico dei figli, adeguatamente aiutati da strutture di supporto.
Le donne altrimenti rischiano di scivolare indietro di sessant’anni senza quasi accorgersene.
Senza contare che gli asili e le scuole sono i luoghi dove i bambini, tutti insieme, tutti uguali, indipendentemente dal contesto culturale della famiglia d’origine, imparano il rispetto per gli altri (quindi anche per le bambine) e soprattutto quelle ‘soft skills’ che danno loro la resilienza nei confronti della vita e la capacità di verbalizzare le emozioni. Non c’è, per le donne di domani, garanzia migliore.
IL VIDEO DIFFUSO DALLA CANADIAN WOMEN’S FOUNDATION