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di MARCO ARVATI *
Nonostante tutto… Ho un sogno.
Il 26 agosto, davanti al Lincoln Memorial, si è tenuta una Marcia, a cui ha partecipato anche il leader Democratico alla Camera Hakeem Jeffries, per l’ampliamento dei diritti civili; questa si è posta nel sessantesimo anniversario della più grande Marcia per i diritti degli afroamericani della storia degli Stati Uniti: la Marcia su Washington del 1963. Tuttavia, nonostante la coincidenza di date, gli organizzatori sono stati chiari nel definire quella odierna una continuazione nella strada delle richieste e non una commemorazione di fasti passati.
La Marcia su Washington del 1963, famosa nell’immaginario collettivo come il giorno del discorso ‘I have a dream’ pronunciato da Martin Luther King, ha avuto una complessa gestazione. La prima idea di portare un gran numero di neri sotto i palazzi governativi, per far comprendere le oggettive situazioni di discriminazione, risale al 1941, quando A. Philip Randolph, il più importante leader sindacale afroamericano del Paese, cercò di organizzare una marcia per protestare contro la disproporzionalità razziale dei programmi del New Deal rooseveltiano. In un periodo complesso, in cui la Seconda Guerra Mondiale imperversava in Europa e avrebbe poi toccato gli stessi Stati Uniti alla fine dello stesso anno, Roosevelt non era incline all’idea che un progetto del genere potesse accadere: fece così modo di far nascere una commissione per esaminare le discriminazioni sui luoghi di lavoro – il cosiddetto FEPC (Fair Employment Practice Committee) – e, attraverso l’ordine esecutivo 8802, eliminò a livello federale la segregazione nei pubblici uffici. Questa mossa disinnescò le volontà di Randolph di una grande manifestazione per il diritto di lavorare e il progetto venne accantonato. A partire dalla fine degli anni ’50 Martin Luther King e la Southern Christian Leadership Conference tornarono a pensare a un grande momento di protesta per mettere in luce come niente si fosse mosso sul piano dell’ottenimento di un progetto organico di diritti civili. Per questo si unì a Randolph e ad altre quattro organizzazioni – diventando note come Big Six – per organizzare la dimostrazione.
Si arrivò a determinare come data il 28 agosto del 1963, un anno oltremodo simbolico, in quanto ricorrevano i cento anni dal Proclama di Emancipazione, voluto da Lincoln durante la Guerra Civile, che aveva bandito la schiavitù nell’Unione; i discorsi di apertura della Marcia si tennero proprio davanti al Lincoln Memorial. Neanche l’Amministrazione Kennedy, come Roosevelt a suo tempo, vide di buon occhio una larga concentrazione di afroamericani richiedenti a gran voce diritti che marciavano liberamente per la città; il governo temeva che tutto ciò avrebbe portato a disordine e caos.
È inutile rimarcare che la Marcia fu un successo, grazie anche alla straordinaria organizzazione di Bayard Rustin, che coordinò i mezzi di trasporto per tutte le persone che si mossero verso Washington, e non ci furono episodi di violenza. Randolph aveva rimarcato che una giornata così, con 250.000 persone arrivate da tutti gli Stati in pieno agosto, non poteva essere il momento culminante della lotta, ma un inizio di nuove rivendicazioni, nel tentativo di far diventare un movimento circoscritto al mondo americano, e soprattutto alla cintura degli Stati della ex-Confederazione, una causa internazionale per il rispetto dei diritti umani.
Di quella giornata è passato alla storia l’intervento di Martin Luther King Jr., di cui però tendiamo a ricordare solo i cinque minuti finali; questo possiamo imputarlo a una classe giornalistica prevalentemente bianca che ha scelto volontariamente di soffermarsi sulla parte più motivazionale, quella che metteva meno in imbarazzo la società.
La realtà è che il discorso, che parte da Lincoln e dal Proclama di Emancipazione, per la maggior parte del tempo è molto accusatorio. King, come già prima di lui gli intellettuali che scrivevano sui giornali neri negli anni ’40, legava i diritti degli afroamericani non tanto a un’estensione delle prerogative costituzionali, come se si dovesse cambiare qualcosa dal testo fondante per includerli, ma ai testi stessi. Se gli Stati Uniti fondavano sé stessi su un diritto dei cittadini a vita, libertà e ricerca della felicità, gli afroamericani non avevano niente di diverso: non erano altro che un insieme di persone che credeva nel Sogno Americano, e che come unica volontà aveva il poterlo vivere al pari della controparte bianca.
Essere a quella Marcia – per King – significava voler incassare un assegno che i Padri Fondatori avevano dato a tutti gli americani, ma che una parte di essi stava continuando a non poter incassare. Era finito il tempo del gradualismo e iniziato quello dell’ottenimento dei diritti sanciti dalla democrazia. Era un discorso combattivo, di lotta, e in cui il sogno arrivava alla fine di un elenco di discriminazioni sistemiche che gli afroamericani subivano. Nonostante tutto King aveva un sogno. Se vogliamo ragionare sulla Marcia a sessant’anni di distanza, è bene ricordarci non tanto del sogno, l’elegia di un pastore, quanto del nonostante tutto, che racchiudeva 150 anni di discriminazione.
(* collaboratore di Jefferson, scrive anche per Harvard Business Review Italia)