di ALBERTO BRUZZONE
Da un mese viviamo su un’isola, noi cittadini del Ponente. Solo che qui non ci sono palme tropicali, nessuno ti sventola aria fresca, nessuno ti serve Piña Colada.
Non ci sono barriere coralline.
Perché siamo isolati, e non isolani.
E le uniche barriere che vediamo sono le lamiere delle automobili che abbiamo di fronte, di lato, di dietro.
Da ogni parte.
Chiamatelo destino cinico e baro, chiamatela sfiga che ci vede benissimo, chiamatela come vi pare: ma quali quartieri e delegazioni stanno pagando il prezzo più alto, dopo l’immane sciagura del Ponte Morandi?
La risposta è ovvia e banale, nella sua profonda tristezza: semplice, le zone che il conto lo saldano da sempre. Sampierdarena, Cornigliano, Sestri Ponente, la Valpolcevera. Se non abiti da questa parte, neppure lo puoi capire, che cosa stanno passando questi genovesi.
Sino al punto che quasi non sono più genovesi, ma un’altra cosa, un’altra realtà, un altro spazio e un altro tempo.
Una volta, quando i nostri vecchi si dirigevano in centro dicevano: ‘Vado a Genova’. E questa identità è rimasta sempre forte e radicata, nelle delegazioni del Ponente. Spesso, si faceva di tutto per non andare, all’insegna del motto “a Sestri ghe de tuttu cumme a Zena”.
Oggi, quando si deve andare al lavoro o a far qualche commissione, ci si prepara con lo stesso spirito pionieristico.
Come attraversare lo stretto di Messina.
Come passare da una terra all’altra, con un vuoto nel mezzo.
Il paragone non è casuale. Che sempre di ponti – o meglio di assenza di ponti – si parla. E nessuno vorrebbe che il futuro viadotto sul Polcevera diventasse una barzelletta come l’unione tra Calabria e Sicilia. Perché i presupposti, purtroppo, ci sono tutti.
Le lungaggini sono dietro l’angolo, la burocrazia pronta a sparigliare le carte e complicare il tutto. Come sempre in questo dannato paese.
Ci chiedono pazienza, i nostri amministratori. La chiedono ai parenti delle vittime che aspetteranno per anni un perché, un nome e un cognome; la chiedono alle centinaia di sfollati, che altro non sperano se non rientrare nelle proprie case, per l’ultima volta, a riprendersi le cose di una vita, i sacrifici, i ricordi più cari; la chiedono ai cittadini del Ponente e della Valpolcevera, ai quali da decenni si promettono grandi progetti, a compensare le servitù che sopportano da tempo immemore.
Pazienza. Chiedono pazienza.
E intanto la politica inscena il suo teatrino. Con pazienza dobbiamo assistere agli insopportabili litigi su chi deve ricostruire il ponte, come, dove, quando e perché. Strategie di sola matrice elettorale, lontane anni luce dai reali bisogni delle persone.
Assistiamo sconcertati all’inguardabile fotografia di uno dei corresponsabili della strage (e indagato) che posa sorridente di fronte al plastico del nuovo ponte, mentre quarantatré famiglie aspettano giustizia e tutto il mondo si chiede come mai quella stessa persona sia ancora lì e non abbia sentito il bisogno, la vaghezza, l’opportunità, l’ovvietà di fare un passo indietro.
E intanto ci chiedono pazienza.
Ci hanno chiesto di fare silenzio, venerdì mattina alle 11,36. Ma forse sarebbe stato più opportuno un grido, un urlo, dal profondo dell’anima.
Che la pazienza è finita, cari tutti.
E se non si vuol perdere anche l’ultimo straccio di fiducia, occorre mettere da parte le manfrine e fare realmente presto. Meno previsioni ottimistiche e più fatti. Senza tante musse, come piace ai genovesi.
Quando questa storia sarà finita (Dio solo sa quando), serviranno plotoni di medici, psicologi e confessori, a riparare i danni di salute, di stress, di ansie, di cristi e madonne spesi ogni giorno lungo pochi chilometri di asfalto.
Perché quest’isola non è per niente bella, né comoda, né sotto il sole. ‘No man is an island entire of itself; every man is a piece of the continent, a part of the main‘, dice una poesia dell’inglese John Donne.
Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto.
Lo dice persino un poeta. Più poesia e meno cazzate.
Grazie.