di ANTONIO JUNIOR LUCHINI *
Una parte significativa del programma elettorale di Joe Biden nel 2020 era dedicata al controverso tema dell’immigrazione ed in particolare della sorveglianza della frontiera con il Messico. Parte della fortuna elettorale di Donald J. Trump quattro anni prima poggiava, dopotutto, sul diffuso malumore verso la quantità di immigrati irregolari che ogni anno attraversa la frontiera meridionale e sul suo legame con la diffusione di gang ed organizzazioni criminali particolarmente violente di origine centroamericana, quali la famigerata MS-13.
All’approccio durissimo di Trump ed alla sua promessa di erigere un muro fisico tra Stati Uniti e Messico, Biden contrapponeva un piano più moderato: creare più canali ed opportunità per permettere ai lavoratori stranieri ed alle loro famiglie di entrare regolarmente negli Stati Uniti, continuando tuttavia ad esercitare una politica di tolleranza zero verso gli irregolari violenti o con legami ad organizzazioni pericolose per la sicurezza nazionale.
Agli inizi, la nuova amministrazione dem si era effettivamente adoperata per porre fine ad alcune politiche d’epoca trumpiana che avevano destato sdegno anche da parte delle frange più conservatrici dell’elettorato americano, quali la separazione forzata dei migranti minorenni dalle loro famiglie e la loro incarcerazione in centri di detenzione dalle condizioni fatiscenti. Tuttavia, i buoni propositi della presidenza Biden hanno presto dovuto fare i conti con la realtà, ed anche con un certo cinismo da parte della Casa Bianca verso la possibilità di poter effettivamente riformare la burocrazia dell’immigrazione in senso più ‘aperturista’.
Durante la pandemia di Covid-19, l’amministrazione Trump aveva fatto ampio uso della legislazione statunitense in materia di igiene pubblica per bloccare e rimpatriare con una procedura accelerata i migranti provenienti da stati dell’America Latina particolarmente afflitti dalla diffusione del virus. Questa clausola, il ‘Titolo 42’, è stata poi adoperata dall’amministrazione Biden per contrastare un flusso considerevole di migranti accorsi alla frontiera Usa-Messico nei mesi successivi al suo insediamento, animati spesso dalla speranza di una politica più morbida ed accogliente da parte dell’amministrazione dem. Nel solo mese di dicembre 2022 circa duecentomila migranti prevalentemente nicaraguensi e cubani sono stati bloccati dalle guardie di frontiere statunitensi ed espulsi con l’ausilio del Titolo 42.
A questo posizionamento rigido Biden ha comunque alternato una politica di aperture parziali, volte anche a dirottare i flussi via dalla frontiera meridionale. Per esempio, aprendo alla possibilità di accogliere come rifugiati tutti i cittadini venezuelani intenzionati ad arrivare negli Usa per via aeroportuale. Mosse che però non sono state apprezzate dalla frangia progressista dell’elettorato dem, che ha visto nelle politiche della nuova amministrazione un sostanziale replay di quelle Trumpiane.
La situazione è stata poi ulteriormente complicata dalla scadenza della Titolo 42 lo scorso 12 maggio: la gestione dell’immigrazione è tornata quindi in mano alle clausole ordinarie racchiuse nel cosiddetto ‘Title 8’, che esclude l’espulsione rapida dei migranti irregolari e permette ai suddetti di fare richiesta d’asilo negli Stati Uniti, rimanendo in appositi centri temporanei di detenzione in condizioni spesso disagiate.
La fine della Titolo 42 ha generato un vero e proprio panico negli stati di frontiera come il Texas, che prospettavano l’arrivo di una nuova, gigantesca ondata di migranti centroamericani speranzosi della possibilità di ottenere l’ingresso negli Stati Uniti. Una paura che è stata cavalcata anche da Ron De Santis, governatore repubblicano della Florida e contendente nelle prossime primarie repubblicane, che ha ampiamente pubblicizzato la sua decisione di spedire truppe della guardia nazionale della Florida sul lato texano della frontiera, in comune accordo con il governatore repubblicano Greg Abbott. Un guanto di sfida a cui l’amministrazione Biden ha a sua volta risposto schierando truppe delle forze armate federali lungo tutta la frontiera, in un tentativo di rassicurare gli elettori sull’impegno di Washington a contrastare l’immigrazione clandestina.
L’ondata, però, non si è materializzata. Ha sicuramente influito un rapido quanto controverso colpo di mano dell’amministrazione Biden, che nei giorni precedenti la fine del Titolo 42 aveva rapidamente cambiato le norme in materia di richiesta del diritto d’asilo: i migranti arrivati negli Stati Uniti devono dimostrare di aver richiesto prima asilo in Messico, o rischiare la deportazione immediata.
Una misura che mette gli Usa in aperto conflitto con le convenzioni internazionali sul diritto all’asilo ed inasprisce i rapporti di Biden con l’ala progressista del suo partito e con lo stato messicano, ma che costituisce anche l’ultima arma dell’attuale presidente per controbattere all’accusa repubblicana di essere troppo morbido verso l’immigrazione clandestina. Forse una scelta obbligata, data l’ostilità della camera dei rappresentanti a guida repubblicana verso ogni progetto di riforma del complesso e restrittivo sistema dell’immigrazione statunitense.
(* ricercatore in relazioni internazionali presso l’Università di Tartu e collaboratore del blog Jefferson – Lettere sull’America)