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Giovedì 4 dicembre 2025 - Numero 403

Trump sostiene che i provvedimenti firmati da remoto da Biden sono nulli? L’ennesima bufala destinata ai suoi fan

L’inquilino della Casa Bianca sostiene da mesi che i provvedimenti firmati con la penna automatica da Biden non sarebbero validi. Un argomento che vuole solo alimentare la rabbia tra i suoi seguaci (per monetizzarla)
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Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.

di MATTEO MUZIO *

Un problema vero nascosto dai media che per Trump è diventata una vera ossessione. Si sa, le testate amiche per troppo tempo hanno nascosto le vere condizioni dell’ex presidente Joe Biden, soprattutto nel suo secondo biennio in carica. Un patto scellerato tra stampa e cerchio magico della Casa Bianca che alla fine ha portato a un clamoroso ritiro che a sua volta ha provocato il ritorno al potere proprio del tycoon. Che non contento del clamoroso ritorno in sella, continua a infierire sul suo predecessore.

Già nello scorso marzo dichiarava su Truth Social che i decreti preventivi di grazia destinati ad alcuni suoi alleati erano nulli “perché firmati con l’autopen”. Di cosa parliamo? Si tratta di quel dispositivo che serve per firmare documenti presidenziali anche da remoto, semplicemente con la riproduzione esatta della firma presidenziale.

Ampiamente usato durante le presidenze di Barack Obama e George W. Bush e persino durante la prima presidenza di Donald Trump, è particolarmente utile per quando i presidenti sono lontano da Washington. Una prima versione di questo strumento, il poligrafo, che firmava due documenti contemporaneamente, era stata usata nel 1803 da Thomas Jefferson che da tecnoentusiasta apprezzò la possibilità di dimezzare la fatica di dover riprodurre infinite volte il proprio nome.

Ed ecco che entra in gioco il mondo bizzarro di sostenitori pubblici di Trump, la cosiddetta “Galassia Maga”, un mix di giornalisti pesantemente schierati, podcaster e semplici diffusori delle più bizzarre teorie del complotto. La tesi, che si basa su un dato reale, le diminuite capacità di Biden, si amplifica fino a diventare una cosa enorme: “Biden non ha mai governato, è stato il burattino di una cricca di “estremisti di sinistra” che “firmavano le cose a sua insaputa”.

Se a marzo sembrava solo una sparata senza valore, adesso il presidente cerca davvero di nullificare i provvedimenti del suo predecessore per questa esatta ragione, peraltro smentita da un memo diffuso nel 2005 dal Dipartimento di Giustizia, in piena epoca di George W. Bush. L’unico precedente che si riesce a trovare risale al 2011, quando Obama firmò in quel modo l’estensione del Patriot Act, la legge antiterrorismo varata all’indomani dell’11 settembre 2001, mentre si trovava in viaggio in Europa.

L’esponente repubblicano però non ha saputo trovare un solido argomento con cui fare ricorso. E anche in questo caso la base della volontà di Trump di cancellare i provvedimenti di clemenza del suo predecessore (da cui è escluso quello riguardante il figlio Hunter, siglato con una penna) ha ben poche possibilità di superare una marea di ricorsi. Che, anche se passassero, rischierebbero di invalidare diverse sue decisioni risalenti al periodo 2017-2021.

L’ossessione è tale che anche nella galleria di ritratti presidenziali alla Casa Bianca il ritratto di Joe Biden è stato sostituito da quello di una sua firma fatta con l’autopen. Un gesto piuttosto meschino denunciato dai democratici e pietosamente ignorato dagli stessi repubblicani. Qual è però la ratio di tutta questa cagnara mediatico-giudiziaria? Semplicemente la volontà di proseguire questo “tour del risentimento” e di istituire farseschi processi per i suoi oppositori. Ma già si è visto con quello dedicato all’ex direttore dell’Fbi James Comey, crollato ancor prima di iniziare.

Si tratta soltanto di “rage baiting”, parola dell’anno per il dizionario Oxford, che dipinge un fenomeno diffuso sui social: l’attizzare la rabbia degli utenti per ottenere visualizzazioni e monetizzazione. E anche per il presidente degli Stati Uniti è lo stesso. Solo che sembra più una vittima del fenomeno più che un utilizzatore seriale di questa pratica deteriore di farsi notare nel Mare Magnum della rete Internet.

(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)

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