di GIORGIO ‘GETTO’ VIARENGO *
Sabato scorso, davanti alla Cattedrale di Nostra Signora dell’Orto, ha avuto luogo un incontro davvero particolare: una rappresentanza di Tabarchini di Carloforte e Calasetta in visita a Chiavari. Il viaggio non era di solo piacere, ma aveva il preciso scopo di rammentare una pagina dei rapporti tra il nostro Tigullio e il più grande Mediterraneo.
Subito dopo il mio saluto, che preludeva alla successiva riflessione storica, siamo entrati nella navata di sinistra della cattedrale e ci siamo soffermati davanti al secondo altare, quello detto ‘dei Marinai’. Raccontavo agli amici Tabarchini che la cappella fu acquisita dalla “Società di Sant’Erasmo” negli anni dell’edificazione del santuario, precisamente nel dicembre del 1633, quando i marinai, i pescatori e i naviganti di Chiavari qui si ritrovarono per dare vita al loro sodalizio e scrissero il primo statuto che regolava la loro attività.
L’atto notarile ci permette di conoscere i primi dirigenti del sodalizio: Nicolò Puccio quondam Benedetto, Battista Copola quondam Francesco, Francesco Solaro quondam Gio Batta. La fondazione avviene con la presenza della massima autorità della Comunità di Chiavari, il Capitano Gio Paolo Giovo. La rilettura della documentazione a noi pervenuta ci permette di comprendere due aspetti fondamentali di queste associazioni di gente di mare: c’erano sicuramente la fede e la riconoscenza verso il santo ausiliatore, deputato a salvare e sostenere gli equipaggi durante i rischi della navigazione; ma c’erano anche, ed essenziali, gli interessi corporativi di quanti vivevano di pesca, trasporti marittimi, con l’intera rappresentanza dei marinai impiegati come forza lavoro.
Lo statuto e le deliberazioni venivano nel corso del tempo ripetutamente aggiornate e riviste, sempre nell’ottica di dare a queste attività delle regole e di garantire ai soci della Sant’Erasmo la più efficace difesa.
Ancora il 30 dicembre del 1723 si aggiornarono gli statuti, con la vidimazione del notaio Tommaso Remondino: quindici Capitoli che regolavano l’attività del sodalizio prevedendo i versamenti e le modalità di calcolo di ogni prestazione svolta sino all’uso dei fondi per l’assistenza ai soci più bisognosi. Qui troviamo i prezzi delle attività di trasporto merci dall’approdo di Chiavari verso le diverse comunità; nel mare tra Portofino e la Manara di Sestri Levante saranno versati “soldi 10 per ogni viaggio”, che verranno consegnati al Console della Società. La tariffa era completamente diversa se il trasporto o le attività erano svolte al di fuori del Tigullio e verso porti più lontani. Inutile rammentare che in questa visione era l’intero Tigullio a raggiungere le prime isole più vicine, Corsica, Capraia e Gorgona sino alla Sardegna, e da qui l’intero Mediterraneo.
Qui la ragione della nostra accoglienza agli amici Tabarchini di Carloforte, un’amicizia consolidata da secoli di vita di mare, di colonie di liguri genovesi lungo le coste della Barberia, tra commerci, pesca del tonno e del prezioso corallo.
Non ci legano solo vicende e cronache del tempo, c’è anche la figura di un sacerdote in questa storia tra gli uomini di Tabarka, l’isola davanti a Tunisi, e la città di Chiavari. Si tratta di colui che fu parroco di quella comunità ligure nel momento più difficile della sua presenza sulla piccola isola africana: Don Giovanni Battista Rivarola, nato a Chiavari il 15 luglio del 1699. Sappiamo poco della sua vita in Chiavari: gli studi e la veste sacerdotale presso gli Agostiniani, forse studiò nel locale convento di San Nicola da Tolentino.
Di certo ci aiuta molto un manoscritto conservato presso l’Archivio di Stato di Torino, redatto da padre Stefano Vallacca. Questo sacerdote, nativo di Tabarca, operò sull’isola scrivendo di suo pugno, attorno al 1770, un’interessante memoria che riporta la cronaca del colpo di mano del Bey di Tunisi del 1741, uno dei tanti momenti di rottura dopo anni di tolleranza verso i coloni liguri.

Nel manoscritto del Vallacca troviamo un quieto quadro di vita quotidiana: “Or dunque il Lomellini pagava rispettivamente alle dette due Reggenze tre mila pezze ogn’anno, e trecento libre di coralli de’ più belli, e mediante un tale tributo si godeva in quell’isola una perfetta tranquillità e pace, commerciandosi con i turchi e arabi con quell’istessa familiarità e sicurezza come se fossero stati cristiani; i tabarchini andavano senza alcun timore non meno in Tunisi e Algeri, che nelle popolazioni degli arabi, e gli arabi e turchi andavano in quell’isola con tutta sicurezza, e nulla temendosi di qualche tradimento si teneva la fortezza, le torri e bastioni male ordinati, i cannoni malamente montati, con poca polvere e pochissime palle, mal provveduti, e talvolta anche accadeva che essendosi imbarcati tutti i grani che erano ne magazzini non si poteva comprarne altri, perché nella tesoreria non vi era danaro”.
Gli algerini presero Tunisi e cambiarono la Reggenza nel 1755; sempre dal manoscritto del Vallacca: “Essendosi resi gli algerini padroni di Tunisi, condussero via da quella città un gran tesoro di contanti, e insieme tutti i schiavi che ivi trovarono, fra i quali essendovi anche i poveri tabarchini non possono esprimersi i patimenti e strapazzi che in quel viaggio soffrirono quelle troppo disgraziate famiglie”.
Sarà il nostro concittadino, il parroco Giobatta Rivarola, a prodigarsi per mettere in salvo i tabarchini, cercando i fondi per riscattare l’intera comunità. Il viaggio, un vero esodo, li condusse prima a Nueva Tabarka, a circa dieci miglia da Alicante, e poi nell’attuale isola di San Pietro nel sud della Sardegna. La nuova destinazione costituì l’approdo definitivo per quei genovesi partiti nel 1542, quando i Lomellini concertarono un accordo col Bey di Tunisi. Dopo due secoli Carlo Emanuele III concesse loro il nuovo approdo, che nel 1738, in suo onore, prese il toponimo di Carloforte.
Ecco un’altra storia in cui ritroviamo un chiavarese protagonista, e la conferma di un ulteriore legame che unisce il piccolo Tigullio al più grande Mediterraneo.
(* storico e studioso di tradizioni locali)