di MATTEO GERBONI
Il Coronavirus si è diffuso in tutto il mondo e le fake news corrono veloci come il contagio. Mai come in questo periodo di emergenza servirebbe avere certezze, tanto equilibrio e buonsenso. La verifica delle fonti e l’approfondimento, prima della condivisione, dovrebbero essere le parole d’ordine in questo mare magnum di informazioni distribuite attraverso canali tutt’altro che ufficiali. E invece sembra una gara a chi invia prima la notizia più sensazionale e allarmante sulle modalità di contagio.
A volte, ad essere stupefacenti, ma per la loro semplicità, sono le forme di presidio – presunte tali – che vengono consigliate da questo o quel parente, dall’amico con conoscenze in ambito medico o dal collega informato. E tutti si fidano ciecamente. La catena parte e il messaggio si ammanta di un fascino da operazione segreta condito da quella mania di protagonismo che ci rende fieri di aver saputo e diffuso una notizia prima degli altri.
Un recente studio dell’Università di Oxford e del Reuters Institute ha mostrato la quantità di notizie false inerenti alla pandemia di Coronavirus in atto che le varie piattaforme social riescono a bloccare. Lo studio riguarda il solo Regno Unito ma trasmette una misura generale dell’impegno profuso in questa congiuntura. Dai dati raccolti emerge che a fare il lavoro migliore è Facebook, che riesce a bloccare il 76% delle notizie false o fuorvianti. Segue a brevissima distanza YouTube con il 73%, mentre Twitter si ferma ad appena il 41%.
Le fake news possono fare enormi danni. Non a caso il Governo ha costituito una ‘Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relativa al Covid-19 sul web e sui social network’. Una sorta di task force, voluta dal sottosegretario all’editoria Andrea Martella (Pd) che sta lavorando gratuitamente e sarà operativa fino al superamento dell’emergenza epidemiologica.
“Non vogliamo mettere alcun bavaglio: vogliamo solo offrire agli utenti della Rete e dei social degli strumenti che gli consentano di verificare se una informazione sul Covid sia corretta o meno”, ammette Ruben Razzante, professore di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica di Milano, autore del primo manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione e fondatore del portale anti-fake news https://dirittodellinformazione.it.
Il professore milanese, riconosciuto da tutti come tra i massimi conoscitori della materia a livello nazionale, è fra gli otto componenti della commissione (composta da giornalisti, specialisti della comunicazione e del fact-checking) che si è riunita anche ieri per “monitorare e segnalare le notizie palesemente false che generano comportamenti sbagliati per la nostra salute. Si punterà poi a potenziare e rendere ancora più visibile l’informazione generata dalle fonti istituzionali”.

Professore, c’è anche chi ha parlato di censura senza troppi mezzi termini.
“Si tratta di un’interpretazione errata, noi vogliamo solo fornire strumenti per esercitare un sano discernimento e fare verifiche su più fonti. Nessuno dirà che tutte le notizie provenienti da un determinato sito sono false perché nessuno vuole censurare alcunché. Parlare dunque di censura in questo contesto è inappropriato. La libertà di opinione è garantita. Ma quando un’interpretazione viene spacciata come verità oggettiva si fa disinformazione, si mistifica la realtà condizionando negativamente i comportamenti e vanificando tutti gli sforzi nella battaglia contro il Coronavirus”.
L’attuale emergenza ha scatenato un’infinità di false notizie.
“Le fake news sono sostanzialmente notizie verosimili che puntano all’emotività delle persone. Ecco perché è fondamentale, per scovarle, l’interlocuzione stretta con gli utenti e con i gestori delle piattaforme. Possono indebolire lo sforzo di contenimento del contagio. Penso, ad esempio, alle tesi complottiste che insinuano che il governo alimenti l’epidemia per guadagnare benefici dai fondi dell’Ue – minando dunque l’esigenza del lockdown – o quelle degli animali domestici ‘untori’ che hanno già provocato abbandoni di cani e gatti, fino alle pseudo-terapie che promettono un’illusoria e facile guarigione dal virus”.
Le fake news hanno la grande peculiarità di diffondersi a macchia d’olio alla velocità della luce.
“Oltre a essere subdole, l’altra caratteristica delle fake news è la viralità. Alcuni siti – solo per aumentare le visualizzazioni – pubblicano contenuti palesemente inverosimili, ma in grado di fare breccia nel pubblico più sprovveduto. Questa informazione-spazzatura influenza i comportamenti e produce dei danni alla nostra salute: dev’essere combattuta e arginata”.
Da quando la pandemia di Coronavirus è scoppiata, Facebook è stata molto attiva su tutti i propri prodotti – dall’omonimo social network a Messenger, passando per WhatsApp e Instagram – nell’introdurre soluzioni atte ad arginare la diffusione di fake news e a fornire invece una corretta informazione basata su fonti affidabili e fatti scientifici. In quest’ottica su WhatsApp l’azienda di Mark Zuckerberg ha deciso di inasprire ulteriormente le misure restrittive, limitando la possibilità di inoltrare a una sola persona o chat per volta i messaggi già inoltrati più di cinque volte.
“Agli italiani sono state imposte una serie di restrizioni per la loro salute. Ma senza una informazione corretta tali misure possono non venire rispettate da tutti, con il rischio che aumentino i contagi. Iniziative contro le fake news sono già state intraprese da Unione Europea, Organizzazione Mondiale della Sanità e Governo Inglese”.
In questo periodo si sta attuando il controllo degli spostamenti attraverso i droni. Non è un problema per la privacy? Quali sono le regole che bisognerebbe seguire nell’utilizzo di questi dispositivi di controllo?
“In linea teorica sì, ma le normative europee sulla privacy prevedono che in casi di minacce alla salute e alla sicurezza pubblica la privacy possa fare un passo indietro per il perseguimento di obiettivi contingenti, come in questo caso la lotta contro il Covid-19. L’importante è che non ci sia un utilizzo illegittimo dei dati acquisiti attraverso i droni, vale a dire delle foto e delle videoriprese che un drone potrebbe fare”.
Molti pazienti positivi al Covid-19 hanno raccontato la loro storia su Facebook e i media hanno ripreso i loro post. In altri casi si è scatenata la caccia all’untore, rendendo pubblici nomi e cognomi attraverso WhatsApp, soprattutto nei primi giorni dell’epidemia.
“Per casi del genere valgono le norme della deontologia giornalistica, formalizzate nel Testo unico dei doveri del giornalista del 2016 e del Codice deontologico dei giornalisti in materia di privacy del 1998. Le condizioni di salute godono di una protezione rafforzata e non devono mai essere divulgate, a patto che non sia il diretto interessato a fare coming out e a rivelarle. Non commettono dunque una violazione deontologica i giornalisti che riportano sui media, anche se spesso in modo inopportuno, racconti di sofferenze fisiche pubblicati dai diretti interessati sui social. I giornalisti che invece pubblicano sui propri profili social notizie riservate o dati sensibili di natura sanitaria riguardanti soggetti specifici possono essere messi sotto procedimento disciplinare, che impone loro una coerenza deontologica anche quando postano contenuti sui social. Il giornalista dev’essere giornalista a tutti gli effetti, non solo quando riporta contenuti di cronaca o esercita una critica sui mezzi di informazione, ma anche quando scrive su Facebook o sulle altre piattaforme social”.
