di DANILO SANGUINETI
Quante imprevisti deve schivare un atleta prima che lo si possa chiamare campione? Quante sfide deve affrontare perché da eterna promessa diventi campione dell’oggi? Tante, tantissime, impossibili da contare sono le piscine ‘nuotate’ da Stefano Luongo, il pallanuotista che visse due, anzi molte volte.
Neppure trent’anni (il prossimo 5 gennaio) e possiede un diario di viaggio da far invidia ad avventurieri stagionati. Ha attraversato lande che i più, fortuna o negligenza, non visiteranno mai; affrontato cimenti insospettati ai più. Da Chiavari alla Nazionale, dalle prime vittorie nei campionati giovanili al tetto del mondo, l’oro ai Mondiali tenutisi il mese scorso a Gwangju, in Corea del Sud. Sarebbe molto, non è tutto perché in mezzo ci sono una carriera con alti precoci e bassi inattesi, sia nei club che in azzurro: esordio in A a soli 15 anni con la Chiavari Nuoto, poi Sori e Camogli, argento agli Europei di Zagabria a 20 anni scelto dal c.t. Campagna come simbolo del rinnovamento, riserva ai mondiali 2011 in Cina – vide dalla tribuna l’Italia vincere il terzo oro iridato della sua storia – scudetto e Coppa italia con la Pro Recco nel 2012-13.
Era il ragazzo meraviglia dell’italica waterpolo quando in pochi mesi il mondo gli frana addosso. Non viene scelto da Campagna per le Olimpiadi del 2012, nell’estate 2013 decide di lasciare la corazzata biancoceleste dove la concorrenza è troppo elevata, c’è un eccesso di stelle internazionali che rischiano di oscurare un astro emergente come il suo. Ha bisogno di essere sempre in acqua, vuole riconquistare la Nazionale.
Sennonché il 6 dicembre 2013 Stefano, che da qualche giorno non sta bene, quasi sviene nello spogliatoio appena prima di un derby con la Canottieri. Viene portato in ambulanza in uno dei più importanti nosocomi di Napoli, il medico di turno al Pronto Soccorso invece di ricoverarlo sceglie di rimandarlo a casa dandogli appuntamento per il giorno successivo.
Nella notte peggiora, si vola in sala operatoria dove solo la perizia del chirurgo riesce a porre rimedio ad una situazione quasi disperata: l’appendicite è degenerata in peritonite, Luongo ha visto la morte in faccia. Non è finita, le complicazioni, praticamente inevitabili considerato lo stato avanzato dell’infezione quando si è intervenuti, si manifestano venti giorni più tardi: l’eccessivo accumulo di pus causa tre perforazioni in un’arteria epigastrica, infine una successiva emorragia interna. A salvarlo sono un intervento magistrale del dottor Rosa e la sua forte fibra.
La ripresa è più rapida di quanto prevedesse anche il più roseo dei programmi di recupero: torna a Chiavari dove viene accudito dalla famiglia, i genitori, i due fratelli, tutti pallanuotisti in attività o ex, lo segue anche un dottore perché per i primi mesi deve osservare un rigidissimo regime alimentare. Torna in acqua, due stagioni ancora a Napoli, poi nell’estate 2016 un’altra svolta del destino: tornato in Nazionale viene però scartato dal solito inflessibile mister Campagna che per le Olimpiadi di Rio fa altre scelte. Una mazzata sul suo morale, un confronto teso anche se civile con il c.t.. Stefano intraprende un altro sentiero: va allo Sport Management da Gu Baldineti, maestro riconosciuto nel lanciare o recuperare talenti.
Un crescendo continuo, cambia anche posizione in acqua e negli schemi, è sempre stato un attaccante che punta al gol e poco altro, impara a difendere, a ragionare, a giocare con e per i compagni. Nel torneo 2018-19 è capocannoniere, arriva una convocazione in Nazionale dopo tre anni di divorzio ‘consensuale’. E pochi mesi dopo è… trionfo. In Corea l’Italia va a corrente alterna nel girone eliminatorio, eppure vince sempre, e così farà dai quarti sino alla finale: Grecia, Ungheria e i soliti nemici spagnoli annichiliti. Una storia che sembra inventata.
Serve una chiacchierata con Stefano per capire che non c’è niente di esagerato, anzi… “In Corea del Nord ho vissuto assieme ai miei compagni due settimane esaltanti. Non avevamo i favori del pronostico ma sapevamo, e perché ce lo aveva detto il mister e perché ce lo leggevamo negli occhi prima di ogni partita, che quello era il ‘nostro’ torneo. Alcune prove sono state più complicate delle altre, mai però la nostra attenzione e la nostra determinazione hanno vacillato. Potrei quasi dire che eravamo in uno stato di grazia”.
C’è chi ha parlato di combinazione astrale fortunata, alcune assenze nelle squadre dell’Est, le nuove regole. “Ad essere sinceri il regolamento modificato ha cambiato un po’ i rapporti di forza ma non penso che sia stato determinante. Per esempio nella finale con la Spagna il modo di arbitrare dettato dalle nuove regole ci è costato una valanga di espulsioni, molte in più rispetto a quelle fischiate alla Spagna, eppure abbiamo vinto 10-5, in una maniera così netta come non si vedeva da tempo in una finale di questo livello”.
Si avverte la piena consapevolezza dei propri mezzi, una maturità raggiunta non per via anagrafica. “Del che debbo ringraziare i miei due allenatori. Gu (Baldineti ndr) mi ha ‘sistemato’ il modo di giocare, mi ha convinto a modificare qualche particolare, a limare alcune imperfezioni; Sandro (Campagna) mi ha parlato a viso aperto la primavera scorsa, ci siamo detti che cosa non aveva funzionato le volte precedenti, gli ho teso la mano. Un grande, una persona che ti valuta obiettivamente, che non si fa influenzare da quanto accaduto in precedenza. Non potevo deluderlo”.
Il nuovo Luongo piace a chiunque, ovunque: il campionato eccezionale con i lombardi ha indotto il presidente della Pro Recco Felugo a richiamarlo a Punta S. Anna. Davanti ha una stagione che è una scalata ancora più ripida: rivincere lo scudetto, aggiudicarsi la sua prima Champions League e, sopra ogni altra considerazione, andare alle Olimpiadi. “La vittoria ai campionati mondiali non deve andare dispersa – ammette. La vera grande sorpresa l’ho avuta al rientro in Italia, all’aeroporto pensavo venissero a festeggiarci i parenti ed i soliti amici, c’era una folla. Io sono prima di tutto un patito di questo sport, i nostri successi possono dare alla pallanuoto italiana quella visibilità di cui ha disperatamente bisogno. E so benissimo che a vincere i mondiali si entra nella storia, ma per la leggenda occorre una cosa sola, l’oro alle Olimpiadi”.
Sarà anche per questo che Stefano ha mollato la presa solo un paio di giorni dopo il trionfo coreano. Dalla settimana scorsa è a Malta ad insegnare la pallanuoto ai più giovani in un camp internazionale. “Lo faccio da diverse stagioni, mi trovo benissimo con i giovani, tento di trasmettere loro quanto mi è stato insegnato e allo stesso tempo imparo molte cose”.
Nel percorso di crescita anche questa tappa è stata importante, ma è indubbio che la svolta decisiva c’è stata a dicembre del 2013. Il volto sempre sorridente del campione chiavarese per un attimo si fa scuro: “Non posso e non voglio dimenticarlo. Io ed i miei cari sappiamo bene attraverso cosa sono passato. Me la sono vista davvero brutta, anche senza sapere quello che poi mi è stato raccontato, ho avvertito di essere in pericolo, in estremo pericolo. La guarigione è stata complicata, mi ha molto aiutato la assoluta certezza che sarei tornato in acqua, a giocare a pallanuoto che era ed è la mia ragione di vita”.
Sono forse rimasti dei segni? “Sul fisico niente di importante. Nella testa nemmeno. Anzi, quanto accaduto mi ha aiutato a mettere ogni cosa nella giusta prospettiva. Da allora affronto le partite, anche le più importanti, con uno spirito giusto. Ho imparato a essere una parte di un team, non un solista: prima se non segnavo stavo male, oggi guardo il punteggio, e so che posso essere altrettanto determinante recuperando una palla, spalleggiando un compagno in difficoltà”.
L’arma segreta di Luongo, la consapevolezza di essere cambiato: “Prima della finalissima con la Spagna ho avvertito un po’ di tensione, ho capito che mi stavo ‘irrigidendo’. E mi sono detto: ‘Stefano, giocatela al meglio, divertiti, sii positivo, in acqua non accadrà niente di irreparabile’. Ho rivisto mentalmente le altre partite. Poi sono entrato in piscina, ho visto gli occhi degli iberici, e quelli dei miei compagni e non ho avuto bisogno di altro, sapevo che avremmo vinto”.