di DANILO SANGUINETI
C’è il tennis, c’è il badminton, il ping pong, dove l’avversario ce l’hai di fronte, mediato da una esile trama di corde intrecciate. Poi c’è lo squash dove il nemico lo hai al tuo fianco e dove l’altro freddo, implacabile interlocutore è il muro. Tra gli sport che si giocano con una racchetta e una pallina lo squash (verbo onomatopeico inglese per schiacciare) è probabilmente quello psicologicamente più liberatorio. Si gioca al chiuso e in uno spazio delimitato e coperto dove le tensioni psicologiche, chiamiamole stress, se ne vanno o quanto meno si riducono.
Al Circolo Tennis Le Mimose Sestri Levante lo capirono con largo anticipo dato che lo spazio chiuso attrezzato lo costruirono nel lontano 1996. Un unico campo, un successo immediato. Marco Bo, che ha preso il posto del papà Renato, creatore, gestore e direttore della struttura sportiva famosa a Sestri, ricorda con nostalgia quei primi anni ruggenti: “Io e mio padre ci credemmo sin da subito. Lo squash stava furoreggiando negli Usa e ben presto anche in Europa si conquistò spazi importanti. Decidemmo che in un club dedito al tennis poteva starci senza sforzo. Mio padre, io ero perfettamente d’accordo, sottolineava sempre come volesse una struttura dedicata agli sportivi nel senso più ampio, intendeva portare la gente a praticare uno o più sport senza trascurare il lato agonistico ma neppure senza privilegiarlo. Per perseguire un simile politica era tassativo differenziare l’offerta, non farsi condizionare troppo dalla rispettive federazioni e soprattutto metterci tanta tanta passione. In quest’ottica il dedicarsi allo squash che ha avuto un momento di ‘sboom’ dopo una decina di anni andati alla grande è stata una scelta coraggiosa e rischiosa”.
Lo sa molto bene lo stesso Marco Bo, che all’inizio degli anni 2000 era considerato un talento di livello nazionale (vinse nel 1999 un titolo italiano di serie C) e che arrivò a disputare partite con gente parecchio forte. “Ricordo un torneo a Milano. Mi ritrovai contro il numero cinquanta del ranking mondiale, un olandese. Persi, ma al termine di un match molto tirato, uscendo dal campo il mio avversario mi fece i complimenti. Mi disse. ‘Niente male per un dilettante. Cosa fai nella vita? Come mai non passi Pro?’. Risposi che aiutavo mio padre a gestire un impianto, un piccolo impianto di squash. E lui: ‘Anche io ho un piccolo impianto in Olanda, pensa che abbiamo solo 12 campi!’ Mi ricordo che mi misi a ridere, avevo capito che la differenza tra il movimento italiano e quello degli altri paesi avanzati era di diversi ordini di grandezza”.
Venti anni dopo la situazione è ancora diversa. “Lo squash ha conosciuto un periodo di declino, ha dovuto lottare con il boom del calcetto che sottraeva spazio a nonno tennis, figuriamoci ai nipoti, oggi si confronta con il Padel che ha avuto una crescita esponenziale straordinaria in due o tre anni, eppure tiene botta. Io almeno non mi sono arreso”.
Ha trovato la soluzione scegliendosi gli eredi. “Dato che nel frattempo ho conseguito l’abilitazione all’insegnamento, ho pensato che oltre a continuare a gareggiare nei Master potessi cercare ragazzi e ragazze che continuassero la tradizione”.
Ed è qui che salta fuori Daniel Brusco. “Lo conosco da sempre, è del 1985, già nel 2000, a 15 anni si capiva che aveva doti non comuni. Il guaio è che aveva le qualità, non la mentalità del campione. Cosa che gli dissi personalmente quando ci rincontrammo nel 2015. E gli chiesi se la sentiva di provare a fare sul serio. Ha accettato e gli effetti si sono visti quasi da subito. Nel 2018 e 2019 ha sbaragliato la concorrenza in campo regionale ed ora sta affermandosi nelle liste nazionali, tanto che cominciano a convocarlo nelle rappresentative”.
C’è un però. “Sia io che lui militiamo sotto un’altra bandiera, quella del Mondo Squash Riccione. Non abbiamo alternative, a Riccione c’è il Centro Federale, là ci sono mezzi, strutture e uomini che ci consentono di operare con tranquillità”. E se un giorno i figlioli prodighi tornassero a casa? “Sarebbe bello ed allo stesso tempo è difficile. Meglio essere realisti, servirebbe un cambiamento netto. Per esempio rivedere come la Federazione gestisce le varie discipline”.
Come sosteneva Renato Bo, il padre di Marco, ideatore del Centro Le Mimose di Sestri Levante, meglio fare da soli che fare confusione. Aveva aperto la struttura sportiva nel 1987: inizialmente solo con i campi da tennis, poi i campi da calcio a cinque e da squash, sempre in anticipo sui tempi aveva adottato il manto in erba sintetica ancor prima che ci pensassero le società di calcio della zona. “È vero, mi sforzo di seguire il suo esempio. Siamo rimasti amatoriali, non vincolati a nessun ente federale, il che ci fa perdere qualche appuntamento importante ma ci permette di accogliere tutti e di far fare sport a più persone possibile. Lo squash era un nostro caposaldo. Mio padre fu il primo a portarlo nel Tigullio, oggi abbiamo l’unico campo attrezzato per praticarlo tra Genova e La Spezia. È qualcosa sul quale costruire”.
Marco lo sa fin troppo bene: se sai giocare di sponda, anche il muro più impenetrabile può essere aggirato.