
Cosa sta succedendo sui mercati finanziari mondiali a proposito dell’Italia, e cosa significano i due termini inglesi del titolo che riempiono oggi le pagine di quotidiani e telegiornali entrando violentemente nella nostra vita di tutti i giorni?
Partiamo dal termine ‘spread’, che viene usato nel linguaggio politico e finanziario del nostro Paese per indicare la differenza di rendimento tra due titoli di Stato. In particolare il confronto è tra il rendimento dei titoli di stato emessi dalla Germania (considerati normalmente i più affidabili) e quelli emessi dall’Italia.
Lo spread è misurato in basis point (100 basis point equivalgono a 1% di interesse, o rendimento).
Partendo dal concetto base di tutti i mercati finanziari in base al quale il rendimento (o tasso di interesse) premia il rischio, e cioè che da investimenti più rischiosi ci si attende un rendimento più alto rispetto a quello che l’investitore accetta da impieghi meno rischiosi, lo spread misura la differenza di percezione del rischio tra un investimento in titoli di stato tedeschi e titoli di stato italiani.
Alla fine del 2017 questa differenza era di circa 100-120 basis point ( 1-1.2% di tasso di interesse annuo).
Giovedì scorso al culmine di una giornata difficilissima per il governo italiano (Conte isolato in Europa sulla difesa di una finanziaria con un deficit programmato di 2,4%, molto più alto di quello consentito dalle regole europee e dagli impegni dell’Italia; lite tra Lega e M5S sul condono fiscale) lo spread è schizzato a 347 basis point, dove non lo si vedeva dall’aprile 2013.
Per un Paese come l’Italia, che ha un debito ‘monstre’ (circa 2300 miliardi di euro, pari al 132% del nostro PIL) la crescita dello spread è un disastro perché significa che le future emissioni dei titoli di stato dovranno garantire agli investitori italiani interessi molto più alti per sperare di essere sottoscritte. La crescita di circa 200 basis point dello spread tra la fine del 2017 ed oggi significa, in soldoni, che se allora un BOT biennale rendeva circa l’1% l’anno oggi lo stesso titolo per essere sottoscritto deve rendere almeno il 3%.
Tra oggi e la fine del 2019 vanno in scadenza circa 400 miliardi di euro di debito pubblico italiano. Il 2% di interesse in più che andrà garantito (sempre che lo spread non peggiori) significa un costo per interessi per il Bilancio dello Stato maggiorato di circa 8 miliardi di euro per il prossimo anno. 8 miliardi che invece di finire in servizi, investimenti o riduzione delle tasse dovranno essere impiegati per servire un debito pubblico sempre più caro.
Ma la crescita dello spread non ha solo effetti sul bilancio dello Stato: va a colpire direttamente anche le famiglie e le imprese. Infatti con il crescere dello spread per le banche diventa sempre più costoso finanziarsi e questo aumento di costo viene alla fine girato sui clienti. In altre parole, per le imprese il credito si contrae e il costo del denaro aumenta, mentre per le famiglie i nuovi mutui diventano più cari e meno facili da ottenere.
Sempre per i risparmiatori si registrano forti perdite in borsa (- 15% da gennaio) e svalutazione di buoni del tesoro precedentemente sottoscritti a causa del loro tasso di rendimento basso rispetto a quelli delle nuove emissioni.
La soglia di spread non valicabile è di 400 basis point in più rispetto ai titoli tedeschi. Superata quella soglia gli esperti ritengono che il nostro debito pubblico non sia più gestibile e gli scenari che si aprono sono da tragedia greca: default del debito pubblico, cioè non rispetto delle scadenze di rimborso, ristrutturazione dello stesso, gravi difficoltà delle banche, commissariamento dell’Italia da parte della Troika (commissione europea, BCE e FMI).
Il governo Berlusconi dovette lasciare il campo nel 2011 con uno spread a 380. Oggi non siamo così lontani da quel livello.
Oltre all’aggravamento del costo per il servizio del debito in conto di interessi per lo Stato, l’altro effetto della crescita dello spread è, come detto, l’insorgere di gravi difficoltà patrimoniali che questa situazione provoca a molte banche italiane.
Moltissime banche italiane infatti hanno sottoscritto negli ultimi anni quote crescenti di debito pubblico, e quindi hanno in pancia (più elegantemente in portafoglio) moltissimi titoli ai tassi del passato (grosso modo intorno all’ 1% di rendimento annuo). Se le nuove emissioni rendono il 3% l’anno ciò significa che i titoli vecchi si svalutano, e vanno svalutati nei bilanci delle banche.
Altra tragedia, questa, perché le banche interessate, per riequilibrare il patrimonio eroso dalla svalutazione dei titoli pubblici, devono lanciare nuovi aumenti di capitale sul mercato (cioè ricerca di fondi freschi) che in una situazione così difficile ben pochi vorranno sottoscrivere.
Il complesso delle difficoltà derivanti dalla sempre maggiore percezione di un ‘rischio Italia’ da parte degli investitori stranieri provocata dall’incertezza e dagli errori che il governo italiano sta commettendo su una finanziaria ad alto deficit e a bassa crescita viene certificato e fotografato dalle agenzie di rating.
E veniamo così al secondo termine inglese assai utilizzato in questi giorni.
L’americana Moody’s, una delle agenzie di rating più importanti a livello internazionale, ha declassato il rating sul nostro debito sovrano a Baa3 dal precedente Baa2, appena un gradino sopra il livello ‘spazzatura’.
Il rating fotografa e certifica l’indice di rischiosità del nostro debito pubblico per gli investitori.
Quando si arriva al livello ‘spazzatura’, e cioè al prossimo gradino, la BCE non potrà più per statuto sottoscrivere quote del debito pubblico italiano, come ha fatto in misura crescente dal 2015 ad oggi.
E a questo punto la tragedia sarebbe totale. L’Italia entrerebbe nel girone infernale di un debito pubblico il cui costo per interessi esplode e diventa sempre più ingestibile perché non si trovano più sottoscrittori disponibili sui mercati internazionali, e la via obbligata diviene quella della ristrutturazione del debito e dei prestiti forzosi richiesti a famiglie e imprese.
Un debito pubblico in default crea problemi ai pagamenti degli stipendi ai dipendenti pubblici, induce le corse dei clienti agli sportelli delle banche, rischia di provocare fallimenti delle banche stesse, con gravissimi danni per il risparmio delle famiglie italiane.
Perché l’Italia rischia di trovarsi in questa situazione da incubo nonostante i fondamentali della sua economia (produzione industriale, crescita dell’export, crescita dell’occupazione) non siano poi così male?
Perché abbiamo un governo di incompetenti che vede le due forze politiche che lo compongono (Lega e M5S) coinvolte in una perenne campagna elettorale. Invece di pensare al futuro del Paese questi sono concentrati solo su quanti voti prenderanno alle prossime elezioni europee.
Come finirà? È difficile essere ottimisti.