di ALBERTO BRUZZONE
Ma la rivoluzione rappresentata dallo smart working è una vera rivoluzione? Quali sono i pregi e i difetti di questo nuovo modo di approcciarsi alle varie attività? E quali sono le prospettive future?
Se c’è un aspetto che ha subìto una netta accelerazione, per via delle conseguenze legate all’emergenza sanitaria, è proprio quello del lavoro a distanza, del lavoro dalla propria abitazione, del lavoro fuori dalla sede e fuori da quei contesti che sino a poco tempo prima erano considerati gli unici e insostituibili: gli uffici.
Il processo di razionalizzazione era già partito prima della pandemia, sia a livello di aziende private così come a livello di pubbliche amministrazioni. Poi, il lockdown ‘duro’ di marzo e aprile ha imposto lo smart working quasi come condizione d’obbligo per poter andare avanti, per non dover fermare proprio tutto. Ora, siamo ancora in una fase critica, dal punto di vista sanitario: non c’è la certezza, al momento, su quando tutto potrà tornare più o meno alla normalità. Ma c’è già la certezza, questa sì, che a livello di organizzazione del lavoro niente sarà più come prima, che i nuovi modelli introdotti potranno essere continuati, replicati e anche necessariamente migliorati.
Ne è convinta Teresina Torre, professore ordinario di Organizzazione e Gestione delle Risorse Umane presso la Facoltà di Economia dell’Università di Genova e tra le principali esperte e studiose di tematiche legate proprio alle nuove modalità lavorative, leggasi smart working.
Secondo la docente (nella foto in basso), “lo smart working è indubbiamente una comodità per tante aziende e anche per tanti lavoratori. Ha indubbiamente i suoi vantaggi ed è destinato anche a ridisegnare il modo in cui si fruisce dei centri urbani e delle varie attività e servizi a esso collegati. Ma vanno fatte moltissime migliorie dal punto di vista del quadro normativo e dal punto di vista sindacale”.
Professoressa Torre, anzitutto ci può tracciare una differenza tra ‘telelavoro’ e ‘smart working’?
“Il telelavoro nasce in un momento storico in cui non c’erano cellulari, né Internet, né wi-fi. Prende forma soprattutto nei paesi del Nord Europa, allo scopo di limitare gli spostamenti delle persone di fronte a condizioni climatiche sfavorevoli, e per questo favorendo il lavoro da casa. Nel caso del telelavoro, tutte le dotazioni tecnologiche sono a carico del datore di lavoro, così come la risoluzione di tutti i problemi legati ai collegamenti con l’ufficio e alla sicurezza della rete informatica. Lo smart working, invece, introduce un modello più ‘agile’, come dice la parola stessa: le parole d’ordine sono efficacia, efficienza e specificità. Una bella definizione la danno Philip Vanhoutte e Guy Clapperton nel loro libro ‘Il manifesto dello smarter working’. Lo smart working, secondo loro, è ‘quando, dove e come si lavora meglio’. In Italia, il telelavoro, ovvero la possibilità di lavorare fuori dalla sede, ha avuto sin da subito tutta una serie di vincoli piuttosto rigidi ed è stato utilizzato soprattutto nei casi di persone con disabilità. Non ha mai avuto una grande espansione, a causa dei suoi costi e perché comportava in queste persone una sorta di effetto ghettizzante”.
La pandemia di Covid-19 ha inevitabilmente stravolto tutto.
“Sì, ma i cambiamenti sul mondo del lavoro e sull’organizzazione erano già pienamente in atto. Lo smart working si sviluppa con l’obiettivo di corrispondere di più alle esigenze del lavoratore. La legge 81/2017 è molto interessante in questo senso. S’intitola ‘Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato’: è interessante perché parla di smart working sia nell’ambito di rapporti autonomi che subordinati. Parla di conciliazione tra le esigenze del datore di lavoro e quelle del singolo lavoratore, parla di incremento della produttività. Detta delle condizioni ottimali per vivere e lavorare meglio. Poi, è chiaro che l’emergenza sanitaria ha fatto sì che tutto il processo venisse accelerato”.
Con lo smart working cambia l’approccio dal punto di vista pratico, ma anche quello dal punto di vista teorico.
“Anzitutto, è l’azienda che deve creare le condizioni affinché lo smart working possa funzionare. Poi, ci dev’essere piena disponibilità anche da parte del singolo lavoratore. È vero, cambia l’approccio: perché bisogna imparare a ragionare per obiettivi, perché i capi devono imparare a rapportarsi con i dipendenti in maniera diversa, perché non li hanno sempre sotto gli occhi, perché deve nascere un altro tipo di rapporto fiduciario. E poi, c’è tutto il discorso tecnologico: le dotazioni di sistemi hardware e software, la connessione stabile, la sicurezza e la protezione dei dati. Per le aziende, ma anche per le pubbliche amministrazioni, si tratta spesso di notevoli investimenti. A livello pubblico, Genova è stata sin dai primi anni un buon punto di riferimento, insieme a città come Milano e Bologna”.
Quali sono i benefici dello smart working?
“Anzitutto, direi un minore traffico legato agli spostamenti, insieme alla rivitalizzazione delle aree periferiche dove le persone vivono. In epoca di emergenza sanitaria, abbiamo visto anche il fenomeno del ‘south working’: ovvero tutta una serie di persone che sono andate via dai grandi capoluoghi del Nord Italia per tornare nelle loro case natìe in Sud Italia, fermandosi a lavorare lì”.
C’è però anche il rovescio della medaglia: le città che si spopolano, le attività commerciali dei centri che ne risentono. A inizio estate il sindaco di Milano, Beppe Sala, fece un appello affinché i cittadini tornassero a lavorare negli uffici. A Londra ci si sposta sempre di più verso le periferie e le campagne.
“Indubbiamente, c’è una certa fluidità dettata dallo smart working. Ma bisogna distinguere tra contesto emergenziale e contesto ordinario. Molte differenze andranno appianandosi, pur restando la possibilità di lavorare da remoto”.
Perché dice che dal punto di vista normativo il quadro è ancora farraginoso?
“Perché molte situazioni vanno ancora definite. Il Governo, nella fase emergenziale, ha varato un quadro con parecchie lacune: chi era già avvezzo allo smart working ha risposto bene, chi non era avvezzo, non ha avuto risultati particolarmente brillanti. Personalmente, distinguo quattro categorie di lavoratori: quelli preparati allo smart working e in condizioni di farlo; quelli preparati e non in condizioni di farlo; quelli non preparati ma pieni di buona volontà; quelli non preparati e non in condizioni di farlo. Ora, dovrebbe essere compito delle aziende dare una complessiva riorganizzazione rispetto a quanto già fatto in fase emergenziale. Tenendo ben presente che niente sarà più come prima e che sullo smart working non si potrà più tornare indietro, perché ha indubbiamente i suoi punti di forza e perché la modalità ‘combinata’ ufficio/casa funziona. Ma come comportarsi, ad esempio, con le dotazioni tecnologiche? Con gli straordinari? Con l’erogazione dei buoni pasto? Sono tutte questioni sindacali che stanno sul tavolo e che vanno affrontate”.
Interessante il discorso dei minori trasporti, perché va a favore dell’ambiente.
“Non solo. Il tempo di viaggio recuperato, può essere utilizzato dal lavoratore per fare altri tipi di attività: sport, volontariato, altri hobby. Anche questo migliora le prestazioni complessive sul lavoro. Quanto all’ambiente, se ne parla poco, ma c’è tutto uno studio che si domanda che fine facciano i vecchi device, e quanta energia in più occorra per reggere tutto il sistema dello smart working. Se ne parla poco, perché queste considerazioni vanno un po’ contro a quella retorica mainstream che difende ed esalta lo smart working a priori. Personalmente, ho uno sguardo positivo verso lo smart working, anche se piuttosto cauto, ed evito le enfatizzazioni. Mi piace il concetto della ‘sobrietà digitale’. In futuro, quello che andrà attentamente analizzato, sarà cosa si può fare e cosa non si può fare in smart working. Ci vuole un’analisi dei problemi, servono regole chiare, anche nella formazione delle persone, nella formazione dei dipendenti come dei quadri. Serve un nuovo rapporto di fiducia. Non ci si potrà più improvvisare, come nella fase dell’emergenza imposta dal lockdown. Non si torna indietro, insomma. Ma bisogna andare avanti nella giusta direzione”.