Fiorenza Sarzanini, giornalista, scrittrice e vicedirettrice del ‘Corriere della Sera’ riceverà venerdì 27 maggio alle 18 a Wylab il primo premio giornalistico Mimmo Angeli insieme a Xavier Jacobelli. Le prenotazioni per seguire il premio a questo link: https://www.eventbrite.it/e/biglietti-il-premio-mimmo-angeli-a-fiorenza-sarzanini-e-xavier-jacobelli-338967740637.
di MATTEO GERBONI
La sua citazione preferita, di Johann Christoph Friedrich von Schiller, recita così: ‘La voce della maggioranza non è garanzia di giustizia’. Fiorenza Sarzanini è una giornalista di razza e di rarissima coerenza. Una top player nel campo della giudiziaria, delle inchieste che contano, delle verità nascoste nelle trame più buie del nostro Paese.
Qualcuno l’ha definita l’ultimo dei mohicani nella prateria di un giornalismo anestetizzato dalla pigrizia dei tempi e dalla velocità delle tecnologie. Non è un caso che non passi mai di moda lo slogan ‘Leggi la Sarzanini e ne saprai di più’, perché è davvero così: nei suoi articoli c’è sempre qualche notizia assente sugli altri giornali, un retroscena o un dettaglio sfuggito ai colleghi, l’esclusiva.
Fiorenza ha sempre consumato le scarpe, ha sempre bussato a mille porte, ha sempre controllato le fonti. In servizio 24 ore su 24, ama dialogare con la gente ma senza passare dalle Forche Caudine dei social.
“Non ho profili social che ritengo dannosi per il mio mestiere, visto che impongono di interagire con chi sta dall’altra parte. Ho sempre fatto della riservatezza il mio punto di forza. I social sono una sorta di ‘sfogatoio’, preferisco inserire la mia e-mail in fondo ad ogni articolo che esce sul ‘Corriere della Sera’ e rispondere a chi mi scrive. La mia casa è il mio giornale. E poi li considero anche un imbarbarimento della nostra professione, prendi i politici che fanno le dirette per evitare le tradizionali conferenze stampa e sfuggire al confronto”.
Figlia d’arte, deve moltissimo a suo padre Mario, giornalista specializzato nella cronaca giudiziaria. Figura trainante per quella ragazza dagli occhi bellissimi e dal sorriso contagioso (come per i suoi fratelli Roberta, responsabile ufficio stampa presso New Paragraph ed Enrico, fondatore di Lighthouse Communications), che ottenuta la maturità classica, si iscrisse a Giurisprudenza.
Ma Fiorenza non resistette alla tentazione di seguire il padre nei meandri del tribunale tanto che un giorno, con spiccato senso della notizia, lui le chiese “Deciditi: vuoi studiare o fare la giornalista?”. Fiorenza sorrise e dopo sette mesi e un solo esame diede l’addio agli studi (“La mia università è qui, al Palazzo di Giustizia”).
Durò un anno quel tirocinio, con il padre a farle da cicerone fra magistrati, avvocati e cancellieri, a presentarle le sue fonti, a insegnarle il valore di un dettaglio e la responsabilità di pubblicare fatti e nomi.
Il debutto su un giornale reale avvenne sulle pagine di ‘Brescia Oggi’, ma la svolta che indirizzò la sua carriera fu l’apertura delle cronache dai quartieri sul ‘Messaggero’. Ai collaboratori esterni era vietato entrare in redazione: Fiorenza scriveva dove capitava, con la macchina da scrivere sulle ginocchia quando non trovava altro appoggio, poi correva in via del Tritone e lasciava il pezzo in portineria. E spesso non andava bene. Toccò proprio alla Sarzanini il record di riscrittura di un articolo: 19 volte.
“I quattro anni di gavetta sono volati via rapidamente. Perché mi divertivo. Perché ho imparato tanto. Perché ho conosciuto gente straordinaria. Erano gli anni d’oro per il quotidiano romano, che aveva un rapporto strettissimo con i suoi lettori. Ricordo una campagna per Roma pulita e centinaia di persone in strada con la ramazza”.
Quindi la chiamata del ‘Corriere della Sera’.
“Ho trascorso sedici anni in via del Tritone, da abusiva nell’archivio a capo servizio della giudiziaria. Una lacrimuccia è scappata quando, il 1° dicembre del 2000, ho raccolto la mia roba e salutato i colleghi. Ma al ‘Corriere’ non si può dire di no, è l’occasione della vita”.
Con una costante: l’amore per la cronaca giudiziaria.
“Mi ha consentito di spaziare in ogni area di interesse. Le inchieste e i processi riguardano tutti i settori, la catena è senza fine. Attraverso la giudiziaria conosci fatti e misfatti del Paese, personaggi di ogni tipo: giudici e lestofanti, colpevoli veri e presunti, politici sani e corrotti, vittime e assassini. I potentati economici e le fazioni politiche che muovono le leve del Paese”.
Le prime dieci pagine dei giornali e gran parte dei telegiornali oggi sono dedicati alla guerra in Ucraina. Un giudizio di parte?
“Leggo splendidi reportage, ma resto anche interdetta davanti alla facilità con cui si creano dei mostri. Persone che a furia di andare in televisione diventano dei personaggi e la gente si innamora di loro, ma come per il Covid, si tratta di figure che si fingono degli esperti, ma in realtà non lo sono”.
Che lezione ha lasciato la pandemia ai media italiani?
“Che l’informazione di servizio paga sempre. Al ‘Corriere’ abbiamo cercato di rendere le nostre pagine soprattutto un manuale di servizio al cittadino, dando sempre la parola a chi poteva dare notizie, approfondimenti e spiegazioni senza vendere fumo. Una politica che ha lasciato il segno”.
Entriamo nella macchina del tempo, il tuo primo caso di cronaca nera?
“Il delitto di via Poma. Allora non c’erano né telefonini né computer. Vivevo praticamente nel palazzo dei Cesaroni nel quartiere Prati da mattina a sera. Si capiva subito che la figura centrale di quel condominio era il portiere, Pietrino Vanacore. Non ha detto tutto ciò che sapeva. Quando dopo tanti anni ho visto Brusco in aula, ho provato un gran senso di pena: io lo so che non è stato lui. Non è presunzione, se all’epoca ci fosse stato un minimo indizio lo avrebbero arrestato. Il fidanzato della vittima sarebbe stato il colpevole perfetto”.
Hai scritto un libro sul caso Meredith uscito nel dicembre 2008 che ha fatto molto discutere.
“Con Guido Ruotolo de ‘La Stampa’ ho trovato i verbali di Sollecito e Amanda. C’era la vita di questi ragazzi, difficile da rendere in un giornale, più facile in un libro. Ho sempre creduto che il modo migliore per raccontare una storia siano le carte giudiziarie: ti fai un’idea a prescindere da ciò che ti dicono magistrati, polizia, avvocati. Attraverso le carte mi sono convinta che i due ragazzi hanno avuto un ruolo importante. Non so, però, se il ruolo di assassini, complici o testimoni”.
Che ricordi hai della morte della contessa Francesca Vacca Agusta? Precipitata in mare dal giardino della Villa Altachiara di Portofino l’8 gennaio del 2001.
“Riuscii ad avere il testo di una telefonata fra Maurizio Raggio, marito della contessa, e il suo amante che cercavano di spartirsi l’eredità”.
Erika e Omar?
“Un’esclusiva che mi diede grande soddisfazione. Ottenni i verbali di un’intercettazione in cui Erika raccontava al suo ragazzo come aveva ucciso il fratellino”.
L’uso delle intercettazioni continua a far discutere.
“Non ricordo di avere mai pubblicato intercettazioni che non abbiano avuto rilevanza penale o politica. Danno uno spaccato di come funziona il sistema politico ed economico in Italia. E attenzione, le intercettazioni non vengono mandate ai giornali dai magistrati: i verbali circolano, vengono messi a disposizione di accusa e difesa, le fonti sono tante e i giornalisti bravi anche”.
Nel tuo ultimo libro ‘Affamati d’amore’ hai sentito l’urgenza di raccontare quel tempo in cui la bilancia era la tua ossessione e il cibo la barriera che mettevi tra te e il mondo.
“Io so come ci si sente. A me è successo quando avevo ventitré anni. Io so quali sono i pensieri che scandiscono ogni giornata, le ossessioni che non ti fanno dormire, Io so come ci si ammala e quanti tentativi si fanno per provare a uscirne. Ma io so anche che se chiedi sostegno e accetti di farti aiutare puoi guarire e rinascere. Puoi tornare a essere la vera te”.
Oggi i disturbi alimentari sono esplosi, il 40% di casi in più, e la pandemia ha scoperto la punta di un iceberg.
“Dopo aver parlato con le persone che intervistavo, puntualmente, la domanda finale, al termine di ogni conversazione era: si può guarire? E così ho pensato che, per come era andata poi la mia vita, fosse un dovere testimoniare il fatto che possiamo scrivere noi il finale”.
Uno stile insolito per una cronista di lungo corso come te.
“Quando ho cominciato a raccontare queste storie, ogni volta che mettevo in mezzo la mia, che dicevo ‘lo so’, cambiava il registro della conversazione. Diventavo immediatamente credibile e cadevano tutte le barriere. Non ero più soltanto una cronista di quel vissuto, diventavo una portavoce. Non avevano bisogno di spiegarmi che quel rapporto con il cibo non è un capriccio, ma un dolore immenso, un valico insormontabile tra sé stessi e il mondo”.
Quando lo hai ha deciso?
“Quando è morto mio padre. È stato come mettere in pratica, fino in fondo, la più grande lezione di giornalismo che mi ha lasciato: raccontare una storia standoci dentro, senza cambiarla, ma non da bordocampo, presenti nella partita che si gioca. E l’ho fatto con la mia”.
Sei guarita grazie a un medico ma anche grazie a una rete familiare e sociale che non ti è mai mancata.
“È una rete che deve abbracciare questi malati ma anche le loro famiglie. Il disturbo alimentare fa arrabbiare, viene scambiato per capriccio, non è visibile come altre patologie, si misura solo quando si arriva a una soglia alta di allarme. È necessario spiegare ai genitori che se tuo figlio non mangia devi trattarlo come se avesse la febbre o qualsiasi altra patologia. Quando, poi, si va oltre una certa soglia di disagio servono strutture e queste oggi mancano in molte regioni. Si tratta di un’emergenza gravissima e le istituzioni devono intervenire. Questo è l’obiettivo di ‘Affamati d’amore’ e del podcast ‘Specchio’”.
Qualche settimana fa hai intervistato il Papa.
“Al di là che uno possa credere o meno, rappresenta il sogno di ogni giornalista poter intervistare il Papa. Quando inizi a scrivere lo dici per battuta, puoi immaginare cosa possa significare farlo veramente, per una persona come me innamorata da sempre del suo lavoro…”.
E in quest’epoca di vacche magre per un giornalismo che ha perso il profumo della carta stampata e l’essenza della notizia.