di SABINA CROCE
La recente crisi sanitaria ci obbliga oggi a immaginare e a progettare una nuova medicina.
Nella seconda metà degli anni sessanta, resi baldanzosi dall’avvento degli antibiotici e dal successo delle campagne vaccinali, salutavamo come conclusa l’era delle malattie infettive e contagiose e aprivamo le porte alla medicina della cura delle malattie croniche e degenerative. Tutta la sanità successiva a quella data nel mondo occidentale si è, con diverse formulazioni e varie percentuali di successo, modellata su questa impostazione, registrando notevolissimi passi avanti nella gestione di alcune di queste patologie. Siamo diventati bravissimi a sostituire pezzi difettosi o rovinati dall’usura, a disostruire condotti bloccati, abbiamo messo a punto cure che ci permettono di convivere a lungo con patologie neoplastiche o metaboliche. L’aspettativa di vita alla nascita si è andata alzando costantemente fino a pochissimo tempo fa, anche se molto rimane da fare per quanto riguarda la qualità di questa vita e di quello che chiamiamo ‘salute’.
Disponendo di cure per il diabete e l’ipertensione che permettono ai pazienti di conviverci con un certo successo e per un periodo abbastanza lungo, abbiamo deciso di considerare questi pazienti come ‘sani’ (in fondo, si penserà, con una o due pastigliette al giorno fanno una vita normalissima). E delle malattie infettive ci siamo bellamente dimenticati.
C’erano state, in verità, alcune avvisaglie che avrebbero dovuto farci riflettere: prima fra tutte l’arrivo dell’HIV, che pose uno stop definitivo al sesso non protetto dei figli dei fiori, ripristinando l’uso planetario del già dimenticato profilattico. Ma in fondo era una patologia confinata alla sfera sessuale o a comportamenti in qualche modo moralmente stigmatizzabili. Poi Ebola, Sars, Mers: tutte troppo lontane, limitate nel tempo e nello spazio, per poterci davvero impensierire.
E tuttavia rimanevano in giro, ignorate dai più, patologie gravi come l’epatite virale; l’uso e l’abuso di antibiotici per ogni sciocchezza, come pure quello massivo negli allevamenti del bestiame, già favorivano la circolazione di forme subdole e particolarmente refrattarie ai trattamenti di tubercolosi e perfino sifilide. E aumentavano, come un monito mai ascoltato, le infezioni ospedaliere, gli espianti di protesi tecnicamente perfette ma irrimediabilmente compromesse dall’infezione. Ma tant’è, ci credevamo intoccabili, protetti da antibiotici sempre nuovi.
Tanto intoccabili ci siamo creduti, che anche la fede nelle vaccinazioni a qualcuno è venuta meno. E così, dopo aver sfiorato l’eradicazione del morbillo, in quasi tutti i paesi occidentali siamo tornati a piangere migliaia di morti bambini a causa di questa patologia vissuta come innocua ma in alcuni casi potenzialmente gravissima.
E adesso, il CoVid19 e la paura di ulteriori ‘spillover’ ci costringono a fare i conti con la nuova frontiera della sanità che ci si para davanti: una sanità in cui dovremo affrontare tanto la cura delle patologie degenerative quanto quella delle malattie infettive e contagiose.
Nella speranza che il governo si decida a chiedere i soldi del MES di cui c’è estremo bisogno, possiamo provare a mettere giù una serie di punti per una medicina ripensata alla luce della nuova frontiera, tra realismo e utopia.
Da dove ripartire? Dal territorio, si dice da ogni parte, ed è certamente giustissimo. Tutto il carico sanitario che può essere tenuto fuori dall’ambiente ospedaliero è potenzialmente più efficace, ha costi minori ed è più adatto a tempi in cui ci si deve preoccupare dei contagi.
Io vorrei ancor più sottolineare questa tendenza al decentramento, e dire: si riparte dal cittadino, e da chi per primo lo conosce e lo cura. Nello specifico, il suo medico di famiglia.
Il progressivo svuotamento di questa figura professionale è stato un disastro che ha minato alla base il nostro sistema sanitario nazionale. Oggi occorre formare ed assumere nuovi medici che sappiano svolgere al meglio questa fondamentale funzione, sottrarli al ruolo di trascrittori di ricette e restituire loro quello di orientamento, di mediazione e di applicazione dei consigli degli specialisti elaborati non dal paziente stesso ma dal suo dottore. Occorre dare loro strumenti diagnostici di livello che possono efficacemente essere ottenuti anche in situazioni molto periferiche con l’accesso alla telemedicina. Il medico di famiglia è il custode della salute del suo paziente: lui, non certo lo specialista, può sapere come questi si alimenta, quanto si muove, quale possibilità pratica abbia di seguire le terapie prescritte. Lui, se fa bene il suo mestiere, mantiene in salute il suo paziente (per quanto possibile, chiaro).
Razionalizzare il carico sul medico di famiglia e potenziarlo con nuove possibilità diagnostiche aiuterebbe a diminuire il ricorso al pronto soccorso, evitando, oltre all’incoerenza di questa pratica, anche intasamenti pericolosissimi per la trasmissione dei contagi, come si è visto nei recenti tragici avvenimenti.
Nella nostra ASL abbiamo un territorio difficile, molto vasto, con una considerevole parte della popolazione sparsa in zone il cui accesso è difficile e che per ottenere diagnosi e cure spesso deve affrontare lunghi e complicati spostamenti. Ma se diciamo che vogliamo ripopolare i borghi dobbiamo pensare ad una sanità di base valida, accessibile e diffusa sul territorio almeno per quanto riguarda le necessità primarie. Che, tra l’altro, risponde anche all’esigenza di evitare la concentrazione di pubblico.
Un ruolo importante in questo decentramento della sanità lo dovrebbero avere le autorità sanitarie locali, vale a dire i sindaci, che possono affiancare la funzione di cura con l’importantissima funzione della prevenzione e della cultura sanitaria. Nelle grandi città si fa strada l’idea della figura professionale dell’health city manager, promotore e coordinatore di tutte le funzioni locali di educazione e prevenzione sanitaria. Sarebbe utopia pensare per il nostro territorio ad un’area health manager, espressione della conferenza dei sindaci, che si occupasse di coordinare le iniziative di tutti in maniera razionale? Possibilmente qualcuno espresso dal territorio stesso, che ne conosca tutti i punti deboli e quelli di forza?
Tutto questo nella speranza, o meglio con l’obiettivo, che in ospedale si arrivi solo quando non se ne può proprio fare a meno. E qui giunti, sarebbe auspicabile trovarvi un’organizzazione razionale delle cure che eviti inutili vagabondaggi tra presidi diversi. A questo riguardo il Comitato Malati del Tigullio ha da tempo formulato delle proposte che riscuotono puntualmente il consenso, quantificato concretamente in cospicue donazioni, di molti cittadini, ma vengono sostanzialmente ignorate dai politici locali, probabilmente in altre faccende affaccendati.
Sanità pubblica o sanità privata? Il dibattito si è ridotto a questo. Io non credo sia questo il punto. Io credo che sia dovere di chi amministra la sanità pretendere e fare in modo che al cittadino sia offerta la migliore sanità possibile in ogni settore, e possibilmente, nell’ottica di fornire a tutti le stesse opportunità di salute, una sanità facilmente accessibile. Il fatto che ci siano eccellenze sanitarie private in settori specifici è un’ottima cosa se non costituisce un alibi per non pretendere il meglio da quanto il pubblico ha da offrire. E resta il fatto che ci sono nella sanità costi, che i cittadini si pagano con le loro tasse, che non sono sostenibili per i margini di un privato e che tuttavia il SSN deve pur offrire, come ci insegna la recente esperienza del CoViD.
Le eccellenze sono sempre le benvenute, anche le private, se si appoggiano ad un sistema di base ad elevato standard di qualità. Altrimenti restano cattedrali nel deserto.
E un sistema di base ad elevato standard di qualità ha più speranze di essere realizzato se perseguito in autonomia dalle ASL, con dirigenti responsabili di un budget e lasciati liberi di agire sulle linee di alcune direttive di base, ma con il solo compito di migliorare le prestazioni, e giudicabili sulla base dei risultati ottenuti. Anche questi dirigenti, possibilmente, dovrebbero essere se non locali almeno messi a lavorare sul posto, anziché a dare disposizioni da un lontano ufficio genovese.
E di già che siamo qui a sognare, tanto vale sognare in grande: abbiamo detto che la sanità va costruita intorno al cittadino. Sarebbe troppo dunque chiedere, quando si va in ospedale, o in un ufficio Asl per una qualunque prestazione, di non venire trattati come inopportuni invasori che quasi devono chiedere scusa di esistere? Sarebbe troppo chiedere che i prestatori d’opera trattassero i pazienti come i clienti che sono e non come il male inevitabile che si accompagna allo stipendio?