(r.p.l.) Roberto Mancini e Genova: una storia infinita, un amore che non cambierà mai. Mezza città, calcisticamente parlando, lo adora. L’altra mezza, quella rossoblù, con il tempo si è intiepidita, mitigata, verso di lui, e ha imparato, se non altro, a rispettarlo.
Lui, da Commissario Tecnico della Nazionale, è tornato nei giorni scorsi, per l’ennesima volta, da dove tutto è cominciato. Proprio sotto alla Lanterna, in quel luogo che lo ha visto protagonista di indimenticabili stagioni, con la maglia blucerchiata. La ‘Sampdoro’, l’avevano ribattezzata, quella sua, di Gianluca Vialli, dei vari Vierchowod, Pagliuca e Cerezo, quella di mister Vujadin Boskov, capace di conquistare uno scudetto, nella stagione 1990/1991, e di arrivare l’anno dopo alla finale di Coppa dei Campioni.
Gloriosi tempi che furono, oggi che la Sampdoria è impelagata, nelle retrovie, in una lotta per non retrocedere ancora tutta da definire, e che il Genoa non se la passa meglio. Sembrano trascorsi mille anni, ma non per Mancini, che è sempre brillante ed è stato capace di mantenere una carriera al top, pure come allenatore, lui che già era stato, e pure ampiamente, allenatore sul campo.
A Palazzo Ducale, il Ct della Nazionale di calcio è stato ospite della rassegna ‘Allenatori – I guru del calcio in dialogo con gli intellettuali’, una kermesse ideata dal giornalista de ‘La Repubblica’ Marco Ansaldo e che ha visto come intervistati, prima di Mancini, anche Marcello Lippi e Alberto Zaccheroni, mentre l’ultimo appuntamento, il prossimo 24 febbraio, sarà riservato all’attuale allenatore del Grifone, Davide Nicola. Affiancare grandi personaggi sportivi a persone che hanno fatto il loro percorso nel campo della cultura: questa la filosofia del ciclo ideato da Ansaldo, insieme al collega del ‘Secolo XIX’, Renzo Parodi, e in collaborazione con la Fondazione per la Cultura di Palazzo Ducale.
Naturale che Mancini riscuotesse l’interesse maggiore, e infatti il Salone del Maggior Consiglio di piazza Matteotti si è riempito, per ascoltare le parole del tecnico, ed ex numero 10 della Sampdoria, indimenticabile come tutta quella formazione, come tutti quei magici anni.
Intervistato da Giovanna Melandri, già ministro dello Sport nel 2006 (anno in cui l’Italia vinse i Mondiali in Germania, con Marcello Lippi in panchina) e attuale presidente del Maxxi di Roma, ovvero il Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Mancini ha spaziato a tutto tondo, raccontando e raccontandosi tra gli applausi.
Allenatori come guru? Secondo Mancini, “il ruolo è, in effetti, un po’ cambiato, rispetto a venti, trenta, o anche solo dieci anni fa. Però siamo sempre allenatori di calcio ed è quello che sappiamo fare meglio. Boskov ed Eriksson sono state le due persone più importanti per me, sono stati gli allenatori che ho avuto di più. Tutti gli allenatori insegnano, perché lavorano con ragazzi giovani e poi quasi tutti noi siamo ex giocatori, quindi abbiamo avuto esperienze dirette. I giocatori rivivono quello che abbiamo fatto anche noi, quando eravamo più giovani. Oltre alla parte calcistica è molto importante insegnare anche la parte comportamentale. I ragazzi apprendono velocemente, poi è giusto e anche normale che facciano degli errori durante il proprio percorso, ma in fondo si migliora solo facendo errori, è da lì che si impara di più. Io anche da giocatore ho ricevuto tantissimi rimproveri, ma ho avuto persone brave e intelligenti che mi hanno ripreso e seguito, e anche grazie a loro ho fatto una carriera da calciatore molto importante e oggi sono ancora qui. Erano persone che se c’era da bastonare, bastonavano, e mi sembra anche giusto che sia così”.
Per un allenatore ‘guru’, non mancano i giocatori ‘artisti’. Mancini si è lanciato in questo parallelo interessante: “I giocatori li considero degli artisti. Un nome su tutti? Marco Verratti. Mi piacciono i giocatori bravi e anche po’ scapestrati, perché in fondo ero un po’ così anche io. Verratti è così piccolo, ma anche così capace di giganteggiare, per via delle sue enormi doti tecniche. Il fatto di esser stato un ‘ribelle’, oggi mi aiuta, nel capire i colpi di testa di qualche giocatore. I bravi ragazzi sono l’ideale, ma qualsiasi allenatore prima pensa all’abilità con i piedi dei suoi calciatori, e poi all’educazione. Del resto in Italia non esiste la cultura della sconfitta e bisogna perciò adeguarsi”.
Il mister azzurro ha parlato della linea verde della sua Nazionale: “Agli Europei sarà difficilissimo, ma questo gruppo sta facendo bene. E sono certo che ci sarà tantissimo affetto intorno alla squadra. Abbiamo cercato di cambiare quasi tutti, lasciando solo qualche esperto per aiutarli, poi abbiamo cercato ragazzi tecnicamente bravi, anche se forse sconosciuti: ora abbiamo ragazzi per bene, bravi, che meritano la fiducia perché ci hanno ripagato di tutto”.
Il primo risultato, è stato quello di riavvicinare i tifosi all’Italia: “C’è grande entusiasmo verso questa Nazionale ed è motivo di orgoglio. In un anno, siamo riusciti a mettere insieme una squadra che fa un buon calcio: si è creata la giusta chimica tra i giocatori, siamo stati anche fortunati perché si sono trovati subito bene insieme”.
Anche Mancini è molto soddisfatto della sua esperienza, che ha accettato con grande slancio sin da subito: “Non saprei dire se sia un punto di arrivo, non è detto che dopo smetta di allenare. So però che è un grande onore e pure una bella responsabilità, visto che alle spalle hai una nazione intera. Per molti mesi ho meno ansia degli allenatori dei club, che vivono il quotidiano, ma poi, quando arriverà l’Europeo, anche io comincerò a sentire la pressione. La mia carriera da calciatore è stata straordinaria nei club, ma non in azzurro. Sentivo nei confronti dell’Italia il bisogno di una rivincita”.
Sul campionato, Mancini ha preferito restare generico, e soprattutto non ha voluto parlare di Sampdoria: “È un bel campionato sia in testa che in coda, speriamo che continui così sino alla fine. Quanto al Var, da calciatore non ero d’accordo, ma poi come mister ho cambiato idea: dopo due anni qualche dubbio resta, non sempre ci sono le stesse decisioni, ma le regole cambiano spesso e sicuramente non è facile per gli arbitri”.
Bellissimi, invece, i ricordi di Genova, in particolare del Ponte Morandi: “È stata la prima cosa che mi è rimasta impressa della città. Giocavo nel Bologna, dal ritiro di Arenzano stavamo andando a Marassi per incontrare il Genoa. Pensai: che paura questo ponte, qui non ci vivrei mai. Ma, per i casi della vita, qualche mese dopo fui acquistato dalla Samp, e ci ho trascorso i quindici anni più belli della mia vita. Arrivare a Genova e conoscere Paolo Mantovani è stata per me una grande fortuna. È stato un uomo dalla classe immensa, cinquant’anni avanti rispetto agli altri, capace di costruire una cosa irripetibile, dal punto di vista calcistico. Forse da un’altra parte avrei vinto di più, ma non avrei fatto felice una persona come lui. È stata una gioia immensa, ho contribuito alla vincita di uno storico scudetto. A Genova sono stati quindici anni meravigliosi e, se fosse dipeso da me, sarei rimasto anche molto di più”.
Ma ieri come oggi, Genova è e rimane nel cuore. Ed è bello pensare che il futuro, si spera finalmente vincente, della Nazionale italiana, sia passato di qui.