di DANILO SANGUINETI
Fabio Quagliarella? Da qualche parte ci dev’essere un calciatore che invecchia al posto suo. Solo così si riesce a spiegare l’incredibile seconda (o terza) giovinezza di un campione che tra i 34 e i 36 anni – festeggiati lo scorso 31 gennaio con una chiamata in Nazionale a quattro anni di distanza dalla precedente – ha raggiunto vette di rendimento mai toccate in quindici anni di carriera ai vertici del calcio italiano.
Lui non si mantiene, migliora addirittura con l’età. La differenza rispetto al wildiano Dorian Gray è che il doppio del bomber della Sampdoria non carica su di sè peccati e omissioni che non ci sono nè potranno esserci in un percorso in costante e prodigioso equilibrio. Mai una polemica, mai un accento sbagliato, insomma mai un passo falso.
Al di là dei primati e dei prodigi, c’è un uomo che è campione anche al di fuori del rettangolo verde. Lo si poteva toccare con mano martedì 12 febbraio a Sestri Levante, quando gli veniva consegnato il Trofeo Rete d’Argento dal Sampdoria Club Gianni De Paoli. Il bis dell’edizione 2018 – tanto per cambiare un primato eguagliato, perché nelle 34 precedenti edizioni solo a Flachi era toccato l’onore di essere premiato per due anni consecutivi – è stato celebrato in un Grand Hotel ‘Due Mari’ affollato da soci e simpatizzanti che si sono contesi a morsi e brani un posto vicino al loro beniamino.
Passione, affetto, ma anche stima e orgoglio di avere come capitano un atleta senza macchia e senza paura. Un personaggio dal carisma tranquillo, che conquista senza bisogno di esibire look esasperati e atteggiamenti stravaganti sovente sovrapposti a discorsi dal lessico elementare e da concetti minimali martellati in loop.
Una conversazione con Fabio, che rifugge dalle interviste, è un dialogo interessante: niente di scontato, ci scappa sempre un grano di saggezza. Sugli argomenti del giorno dribbla e si smarca come sul campo; il colpo di tacco, spettacolare perché arduo come quello che tenta e spesso azzecca in gara (chiedere a Napoli), lo tiene in serbo per rivelare che dietro il campione non c’è il vuoto. C’è Fabio, un ragazzo di Castellammare di Stabia che ha sempre e solo indossato la maglia numero 27 per ricordare Nicolò Galli, suo compagno nelle nazionali giovanili, morto in un incidente stradale nel 2001. È la sua personale “Canzone per un amico”. Ne ha percorso di strada quel ragazzo, dal Torino 1999-2000 alla Samp 2019, 584 presenze in campionati professionistici, 193 reti, 25 presenze e 7 reti con l’Italia. Torino, Udinese, Napoli, Juventus, Sampdoria. Viandante non vagabondo, con alcuni punti fermi ai quali ancorarsi.
Per esempio i tifosi Sampdoriani.
“È vero, quando vengo a trovarli, come a Sestri per la Rete di Argento, avverto un’onda di affetto che quasi mi sommerge. E che mi fa un enorme piacere, mi fanno sentire a mio agio. Mi sento a casa”.
Viene visto come il taumaturgo, quello che risolve i problemi della squadra.
“Lo devo al ruolo, perché segno. Dimenticano che i miei gol sono il frutto di un lavoro di equipe. Ho imparato che senza gli altri, senza sapere collaborare non ottieni niente”.
La stima nei suoi confronti travalica le usuali barriere del tifo, come lo spiega?
“Forse è anche questo un riconoscimento alla carriera. Mi spiego: ogni anno, in qualunque posto mi sono trovato, mi sono battuto al meglio delle mie possibilità. Ho cercato in una parola di essere serio. Sono convinto che la coerenza in questo mondo, ma un po’ in ogni ambiente, alla fine paghi. I comportamenti che tieni in campo e fuori – nessun gesto eclatante, nessuna parola contro gli avversari e i loro tifosi – alla resa dei conti ti vengono riconosciuti”.
Il gesto del Genoa che si è congratulato con lei pubblicamente per aver eguagliato il record di Batistuta?
“Una cosa bellissima perché inaspettata. Lo confesso: mi hanno commosso sia i complimenti della società che gli apprezzamenti dei tifosi rossoblu. Vi ho visto un riconoscimento all’uomo prima che al calciatore. Non puoi non esserne orgoglioso. Approfitto per ringraziarli pubblicamente”.
L’unico appunto che le viene spesso fatto è la scelta di non esultare quando segna alle sue ex squadre (e accade spesso…)
“Non è un comportamento ipocrita come qualcuno pensa. E non è neppure una scelta fatta a mente fredda. Resto calmo perché penso a quelle squadre dove sono stato, a quelle città dove mi sono trovato bene. E soprattutto a quei tifosi che mi hanno sempre rispettato. E allora perché non posso rispettarli anche io di ritorno? Si badi bene: non è una verità assoluta, è una mia scelta. Non c’è un modo giusto e uno sbagliato di festeggiare, ognuno si regola secondo la sua coscienza”.
Parla e si comporta come un leader. Dica la verità, tra dieci o forse venti anni, dove si vede?
“Sinceramente non lo so. Navigo a vista in questo momento (ampio sorriso Ndr). Quindi non guardo troppo in là. Vedremo che cosa ci porterà il domani, penso di restare nel mondo del calcio”.
Navigare è un richiamo alle sue origini: lei si sente ancora castellammarese?
“Castellammare di Stabia per me è tutto. Là ho la famiglia, ci sono nato, ci sono cresciuto, almeno una volta al mese ci torno. Le mie radici sono lì. È vero, sono un uomo di mare e quindi avere un porto sicuro è importante”.
Da un porto a parecchi porti. La Liguria con le sue baie e insenature le calza a pennello?
“Una meraviglia. Mi piacciono le riviere, sia Ponente che Levante. Per non parlare del Tigullio, ogni volta che riesco a fare un salto scopro posti magnifici. E poi il mare, sempre uguale, sempre diverso. E la gente. Tra naviganti ci capiamo senza dover fare tanti discorsi”.
Fabio Quagliarella, capitano di lungo corso, ha varcato la linea d’ombra ed è pronto a salpare verso ancor più felici orizzonti. Chissà che la Liguria non possa fargli da porto d’attracco.