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di ALBERTO BRUZZONE
Da oltre una settimana, le immagini della tragedia del Ponte Morandi vengono trasmesse a rullo su tutti i telegiornali, in tutte le emittenti televisive. A ogni ora del giorno e della notte.
Le fotografie del disastro sono sui giornali, sui social. Ovunque. Chiunque ne parla.
Così, più o meno accidentalmente, qualsiasi essere umano ne è venuto a conoscenza. Adulti ma anche bambini. Molti di loro, soprattutto i genovesi, hanno rivisto il loro ponte, un’immagine prima rassicurante, abituale e familiare, ora diventata simbolo negativo. Per i più piccoli sono state emozioni fortissime. Di quelle che non si riescono a spiegare, senza l’ausilio dei grandi.
Hanno visto il Morandi sbriciolarsi come i loro castelli di sabbia, come le costruzioni del Lego. Hanno saputo che, sotto alle macerie, sono rimaste tante persone. Anche bambini che avevano la loro età. Quelli del Campasso poi, in aggiunta a tutto questo, sono stati costretti a lasciare le loro case, le camerette, i loro giochi.
Sono traumi enormi, e i genitori si chiedono come bisogna comportarsi, in una situazione assolutamente insolita e difficile, nel suo essere così catastrofica. Erika Panchieri, psicologa che lavora tra La Spezia e Chiavari e che porta avanti in diversi istituti l’interessante progetto ‘La Scuola Ascolta’, sulla prevenzione del disagio in età giovanile, le dipendenze, i problemi con la famiglia e tante altre questioni, indica a mamme e papà la strada da seguire in frangenti come questo.
“In questi giorni – afferma – ho ricevuto diverse telefonate di genitori, che mi chiedevano appunto cosa fare. Come comportarsi con i loro figli. Che cosa dire e come dirlo. Non ho avuto accessi in studio, nessun caso dal punto di vista clinico, ma ho dato diversi consigli”.
Secondo Panchieri, “è molto difficile che i bambini, a parte quelli di pochi mesi, non abbiano sentito qualcosa. Perché la tragedia del Ponte Morandi è stata veramente trasmessa e mostrata ovunque. E, naturalmente, anche i piccoli hanno recepito e assorbito, a loro modo”.
E’ proprio su questo aspetto, secondo la psicologa, che mamme e papà devono lavorare: “A loro modo vedono queste immagini e, non avendo tutti gli elementi per poter valutare in quanto ancora troppo piccoli, tendono a darsi delle risposte da soli che non sono quelle esatte. Non è ovviamente colpa loro, ma fanno dei percorsi mentali che vanno prevenuti. Il rischio, infatti, è che possano sviluppare ansie e fobie. Come quella di dover morire da un momento all’altro. O quella di passare sopra o sotto a un ponte”.
La presenza degli adulti è quindi fondamentale. E dev’essere una presenza tranquillizzante, pur senza mentire: “Ai bambini, pesando le parole a seconda dell’età, occorre dire la verità. Raccontare le cose così come sono state. Anche parlando delle persone che hanno perso la vita. Ma bisogna che a tutto questo, spiegato con la dovuta leggerezza, si accompagnino anche messaggi rassicuranti: dire che il crollo di un ponte con queste conseguenze è un evento molto raro, dire che si stanno facendo ora tutti i controlli e che si farà in modo che non accada mai più. Devono essere i primi, insieme agli adulti, a riacquistare un senso di sicurezza. Dall’altra parte, i genitori, nel cercare di incanalare le emozioni dei bambini, non devono assolutamente nascondere le proprie. Possono liberamente raccontare di aver avuto paura, di aver pianto, di stare soffrendo”.
Panchieri è convinta che “l’argomento verrà certamente trattato a scuola, e non può essere altrimenti, perché fa parte della vita di tutti noi. Quando riprenderanno le lezioni, mi aspetto di essere chiamata per un supporto, o per una presenza in classe. Nel frattempo, anche per il 2018/2019 ripartirà il progetto ‘La Scuola Ascolta’, al quale tengo moltissimo”.
Erika Panchieri incontra nel suo lavoro moltissimi adolescenti. Ma, naturalmente, cura anche gli adulti. “Anche per loro il crollo del Ponte Morandi è stato un trauma. Un evento ‘importante’ per tutti, percepito in maniera svariata a seconda dei caratteri e delle emotività. E’ normale che qualcuno in questo periodo non riesca a prendere sonno o faccia brutti sogni. Direi che nel primo mese può avvenire abbastanza spesso. Il pensiero torna sempre lì. Come le parole, come tutti i discorsi che si fanno. Io dico che bisogna accettare le emozioni, lasciarle salire, in questa fase. Senza preoccuparsene. Serve del tempo perché prevalga la parte razionale che è in ognuno di noi. Lentamente questo processo si verificherà. Se invece, dopo un certo periodo, i disturbi continuano, allora occorre trattare il caso in maniera diversa. Magari dal punto di vista clinico, per rimuovere eventuali blocchi che possono essersi creati. Il lavoro sulla fobia è serio e complesso. Ma, prima di allarmarsi, è meglio aspettare che sia la nostra stessa mente a completare i suoi percorsi rielaborativi. Certo, una tragedia di questa portata può davvero segnare per molto tempo”.
Le maestre: disegni dei bambini, percorsi condivisi, riflessioni di gruppo
La tragedia del Ponte Morandi è troppo grande per essere passata sotto silenzio. E’ enorme. I bambini non possono rimanere nella campana di vetro. E’ difficilissimo e, per certi versi, inopportuno.
Così questo è uno dei classici casi d’attualità destinati a entrare nelle scuole. Alla ripresa delle lezioni, dalle elementari in su, se ne parlerà nelle varie classi, con metodologie differenti a seconda dell’età dei bambini. Una sorta di ‘rielaborazione’ del trauma a livello collettivo, ma anche un percorso di condivisione di stati d’animo, paure, ansie, dolori ed emozioni che sarà utile per tutti, grandi e piccini. E’ la funzione sociale dell’istruzione, oltre a quella meramente didattica. Il mondo è anche fuori dai libri e ogni occasione, anche quella più catastrofica, serve per crescere. Tutti insieme.
Luisa Scafidi e Andreina Cecchi insegnano in una scuola elementare di Genova, a pochi chilometri di distanza dal luogo della tragedia. Il 17 settembre, giorno d’inizio dell’anno scolastico 2018/2019, si troveranno di fronte i 17 bambini della loro terza classe.
Come affrontare con un piccolo di otto anni un disastro che ha segnato e segnerà per lunghissimo tempo la storia di Genova? E’ il caso di affrontarlo? Secondo le due insegnanti sì: “Premetto – afferma Luisa Scafidi – che si tratta di situazioni assolutamente personali. Nel senso che, in questi casi, non esiste una didattica apposita e specifica. Ogni coppia di maestre si coordina per come ritiene più opportuno, anche a seconda dell’età dei ragazzi. Io sicuramente lo farò con la collega Andreina”.
L’idea, comune, è quella di partire dal disegno. “E’ un percorso specifico all’età di otto anni. I bambini trasferiscono sulla carta le loro emozioni. E’ un modo per far uscire quello che hanno dentro. Poi, in base ai loro elaborati, inizieremo una discussione comune”.
Le insegnanti sono d’accordo con quanto sostengono gli psicologi: “Occorre dire ai bambini la verità, nella maniera più adatta in base agli anni e alla loro sensibilità. Ma loro sentono sicurezza, quando parlano con un adulto”.
La scuola genovese da tempo svolge percorsi dedicati all’autoprotezione, specialmente in casi di eventi alluvionali. “Ma abbiamo fatto – ricorda Luisa Scafidi – pure qualche lezione su come comportarsi in caso di incendi o di terremoti, in collaborazione con il Corpo Europeo dei Volontari dei Vigili del Fuoco. Solo che si trattava di catastrofi naturali, per quanto la mano dell’uomo possa incidere in certi casi. Il crollo del Ponte Morandi è un fatto completamente diverso”. Che però va analizzato a tutte le età: “Il rischio di non parlarne – osserva Andreina Cecchi – è anche peggiore. Primo, perché sono sicura che tutti i bambini sappiano cosa è successo. Secondo, perché senza l’aiuto di un adulto possono nascere ansie e fobie, che sono assolutamente da evitare. Ai bambini insegniamo ad affrontare le questioni, a conoscerle, a metterle in luce nella maniera più corretta, dando comunque, alla fine, dei messaggi rassicuranti”.
“E’ un evento raro – aggiunge Scafidi – e questo fatto va sottolineato con fermezza. E comunque i bambini sanno sempre sorprendere. Hanno un atteggiamento positivo, propongono strategie risolutive. Quando sanno che i grandi li tengono per mano e sentono di potersi appoggiare, allora affrontano tutto con serenità. E’ anche in queste occasioni che si rafforzano. Nel provare emozioni, anche se qualche volta ci sono sofferenze, sviluppano il loro carattere”.
La scuola della vita. “Già in passato – ricorda Cecchi – i grandi fatti d’attualità sono entrati in classe. A Genova, in particolare, lo abbiamo fatto con le alluvioni. Studiamo i fenomeni naturali e come bisogna comportarsi in caso di allerte, attivando i percorsi di autoprotezione che ormai tutti devono conoscere, sin dalla tenera età. Viviamo in un territorio estremamente fragile dal punto di vista idrogeologico e questi concetti vanno trasmessi a cominciare dai bambini. E poi, un problema affrontato insieme è sempre un po’ più ‘leggero’. Se mi rendo conto che le mie paure e le mie ansie sono anche quelle del mio compagno di classe, provo un po’ di consolazione e inizio a tranquillizzarmi”.
Rielaborare è la parola d’ordine, in questa città ferita a morte. Trovare uno straccio di senso, dentro la disperazione degli sfollati, la fatica dei pompieri, il dramma dei parenti delle vittime. Riflettere. E crescere tutti insieme. Dentro una di quelle immani sciagure che hanno l’effetto miracoloso di rendere una città più orgogliosa e unita di quanto non lo fosse prima.
L’INTERVISTA DI MARISA SPINA ALLA PSICOLOGA ERIKA PANCHIERI[/vc_column_text][vc_video link=”https://youtu.be/1lU9SjWDzao” align=”center”][/vc_column][/vc_row]