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Giovedì, 1 giugno 2023 - Numero 272

Rischio recessione: dove va l’economia mondiale

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L’economia mondiale sta dando di nuovo segni di debolezza e il rischio di una nuova recessione è reale.

Molte sono le incertezze e le incognite: alcune di natura propriamente economica e finanziaria, quali il rallentamento del ciclo e una liquidità mondiale di dimensioni gigantesche disperatamente alla ricerca di rendimenti decenti; altre più squisitamente politiche come la Brexit o le varie crisi in Medio Oriente.

Ma l’elemento che sopra tutti sembra preoccupare l’economia globale è il passaggio da un’era di multilateralismo e di mercati aperti a un’era di bilateralismo fatto di guerre commerciali tra i Paesi, dazi e protezionismi vari.

La presidenza Trump è stata determinante per l’avvio del nuovo corso, e le tensioni permanenti tra le due superpotenze del nuovo millennio, Usa e Cina, riducono i flussi del commercio internazionale e deprimono gli operatori.

Contemporaneamente gli strumenti di politica economica rischiano di essere sempre più spuntati, a partire dalla politica monetaria che, raggiunti i tassi di interesse pari allo zero o addirittura negativi, non ha più nulla da dare come supporto e sostegno alle economie in recessione e al ciclo negativo.

I due aspetti si intrecciano inesorabilmente. La crescita si indebolisce fino a fermarsi, soprattutto perché il commercio mondiale si contrae sotto i colpi diretti di guerre commerciali, dazi, quote e protezionismi di ogni sorta e dell’incertezza e delle aspettative negative indotte dalla crisi degli scambi internazionali.

Le politiche economiche, esaurito come detto lo spazio delle manovre monetarie, avrebbero bisogno di politiche fiscali, di bilancio e strutturali. Ma anche qui per molti Paesi, tra i quali al primo posto figura l’Italia, non c’è spazio per queste politiche, a causa dei grandi debiti pubblici accumulati negli anni.

Le politiche strutturali, inoltre, come le riforme del mercato del lavoro, la sburocratizzazione, l’innovazione digitale e altre ancora, sono meno attraenti per i politici, perché danno benefici visibili solo nel medio periodo e spesso non sono remunerative in termini di consenso elettorale.

Quanti voti ha perso Renzi, ad esempio, per la riforma della ‘Buona Scuola’, vigorosamente osteggiata dalla stragrande maggioranza degli insegnanti e dai loro sindacati, specie in quelle parti in cui si cercava di premiare il merito e si rafforzava il potere di indirizzo e guida dei presidi?

L’Italia, come detto, rischia di ritrovarsi in una situazione drammatica.

Da un lato, la crisi del commercio internazionale e la crisi acuta della Germania, nostro principale cliente, rischiano di indebolire gravemente l’unico punto di forza della nostra economia negli ultimi dieci anni: e cioè la dimensione e la competitività delle nostre esportazioni, che hanno consentito al Paese di avere una bilancia commerciale strutturalmente in avanzo (per svariate decine di miliardi di euro l’anno) e hanno sorretto la parte migliore della nostra industria manifatturiera.

Dall’altro, non ci sono gli spazi per una politica di investimenti pubblici atta a sostenere la domanda e l’economia interna alle prese con il rallentamento/recessione mondiale, a causa della totale mancanza di spazio di bilancio, ingessato dall’enorme debito pubblico e dal servizio del debito stesso.

L’Europa e l’azione europea sarebbero fondamentali. Lanciare una grande campagna di investimenti strutturali e infrastrutturali per la modernizzazione del continente sarebbe quanto mai necessario. I tedeschi si sono sempre opposti a questa idea ma forse oggi, alle prese con una recessione grave e con i suoi effetti, potrebbero rivedere la loro posizione.

Bisognerebbe inoltre avere una posizione comune a proposito del multilateralismo e dei mercati aperti, evitando di stringere rapporti bilaterali, ad esempio con la Cina, come ha fatto l’Italia di recente con il governo giallo-verde nella convinzione, sbagliata, che andare da soli serva meglio gli interessi del Paese.

Un Paese come il nostro, che vive dell’apertura dei mercati e che a causa delle sue debolezze e dei suoi ritardi vede ogni anno da oltre un decennio decine di migliaia di giovani andarsene dopo essere stati formati dalle nostre scuole ed università, dovrebbe fare ogni sforzo per rifiutare lo schema bipolare e lavorare con convinzione per un multilateralismo aperto efficiente e concreto.

In un pianeta che, dopo una straordinaria e travolgente fase di globalizzazione, rischia di richiudersi in protezionismi e sovranismi di ogni risma, mantenere alta la cultura di un mondo aperto e promuovere il commercio internazionale non sarà soltanto una scelta economica, ma una misura di civiltà.

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