di MATTEO GERBONI
Da giorni parlarsi rappresenta l’unica uscita dal tunnel della solitudine e del pessimismo. Tante mani che si uniscono, altre mani nelle nostre: soltanto così si può credere di accarezzare la rinascita, di costruire un nuovo futuro.
Pulsazioni di felicità, palpiti di angoscia. La vita è una questione di battiti del cuore. Cesare Prandelli lo sa bene: le forze per ritrovare speranza e fiducia, in tempi così difficili, bisogna chiederle proprio a quel nostro ‘dentro’. Il tecnico è una persona vera. Sensibile e genuina. Fa il ‘contadino’ nel suo uliveto alle porte di Firenze, con il pensiero fisso alla terra che lo ha messo al mondo, Orzinuovi, 30 chilometri da Brescia, una delle aree più flagellate dal Coronavirus.
“Non riesco ad accettare che una persona lasci la propria famiglia e muoia da solo, senza una carezza, un bacio, un ultimo saluto. Quando nasce un bambino siamo tutti lì a festeggiarlo, ora si chiude la porta dell’ambulanza e ti resta solo il ricordo di una vita. Non è giusto, non lo posso accettare. Mi fa troppo male”.
Persona seria, corretta, trasparente. Ama dire pane al pane, affrontare il problema alla radice, guardare il suo interlocutore negli occhi. In questo calcio, spesso ovattato, assomiglia tanto a una mosca bianca. Ha una visuale privilegiata l’ex ct dell’Italia, già allenatore di Atalanta, Lecce, Verona, Venezia, Parma, Roma, Fiorentina, Galatasaray, Valencia, Al-Nasr e Genoa, prima ancora giocatore di Cremonese, Atalanta e Juventus.
Mister come vive questi giorni così difficili?
“Con dolore, profondo dolore. Vivi sempre con l’angoscia che qualcuno ti possa chiamare e darti una brutta notizia. Ma mi sforzo ogni giorno di pensare positivo, mi immagino a quando tutto tornerà alla normalità tra qualche settimana, un mese o forse due”.
Cosa si immagina?
“Che saremo molto diversi. Credo che ci saranno molti cambiamenti a livello interpersonale e sociale. Mi auguro che questa pandemia abbia fatto capire a tutti che non siamo immuni da nulla. La società dovrà darsi altre priorità, pensare al futuro dei nostri figli, a risollevare il paese dal punto di vista economico. Ci saranno molte cose da rivedere. Ogni giorno che trascorriamo facendo la conta di chi ci ha lasciato ci regala uno spunto di riflessione”.
In concreto a cosa pensa?
“Mi aspetto un Paese che investa tanto sulle strutture ospedaliere e sulla ricerca, che diventi un punto di riferimento. Un Governo forte, le Regioni più autonome nell’emergenza. La burocrazia dovrà essere snellita. Si è scoperto il lavoro nero sommerso e si sono istituiti i buoni pasto. Abbiamo capito che conta la persona. Cambierà la vita di tutti. Ci siamo resi conto della nostra fragilità”.
Come trascorre la giornata nel suo uliveto dove tutto è sopito e si sente solo il ticchettio delle olive che piombano a pioggia nelle reti?
“Poto gli ulivi, pianto gli ultimi arrivati, poi c’è da far legna. Lavori che in questo periodo mi tengono occupato. C’è stato un giorno fortunato della mia vita in cui ho avuto la possibilità di acquistare questo posto, dove ci sono armonia e sensazione di benessere. Stare all’aria aperta, camminare. Mi sento un privilegiato”.
Quando è stato l’ultima volta a Orzinuovi?
“Ero lì tre settimane fa, sono andato a trovare mia mamma come ogni settimana. Domenica in piazza, a chiacchierare con gli amici di una vita. Girava già la voce della chiusura totale. Avevo impegni di lavoro a Firenze. Sono ripartito. Il giorno dopo è diventata zona rossa”.
Ha perso un grande amico.
“Dalfio era un vero amico. Mi seguiva da una vita, ci volevamo bene. L’ho incontrato anche quella mattina. Ho pure scherzato: ‘Io ho il fisico, ma tu sei cagionevole. Vai a casa…’. Poi ho sentito sua moglie. Era distrutta. Non ha potuto neppure salutarlo. Ho perso molti amici e conoscenti: un prete, un medico, un rappresentante… A Orzinuovi, 13.000 abitanti, morivano in media 100 persone all’anno. Ne sono morte 90 in tre settimane. Una strage. Se muore un anziano, si commenta: ‘Vabbè, aveva 80 anni…’. Ma quei vecchi hanno fatto la nostra storia, ci hanno permesso di essere quello che siamo. Forse domani riserveremo agli anziani più rispetto”.
I suoi parenti come stanno?
“Ho uno zio e altri contagiati. La moglie di un mio cugino è medico e vive separata in casa da marito e figli. Mia mamma sta bene, per fortuna. È assistita da una badante e dalle mie due sorelle. Penso a loro continuamente e quando suona il cellulare ho paura”.
Migliaia di morti, un bollettino di guerra quotidiano nonostante tanti eroi in prima linea.
“A loro va il mio pensiero: medici, infermieri personale sanitario. Stanno dimostrando di essere davvero degli eroi moderni. E penso anche ai 20.000 volontari italiani che stanno combattendo l’emergenza. Non sarà mai più come prima. Usciremo da questo incubo diversi, in un’Italia migliore, spinta sulla strada giusta dal dolore sofferto. Me lo auguro”.
Quando potrà rimettersi in moto il mondo del calcio?
“Sono sincero, per ora ho un sentimento di repulsione. Io associo il calcio al divertimento, alla gioia. Questo non è il momento del calcio. Bisogna lasciare decantare il lutto e il dolore. Ci vuole rispetto per chi ha sofferto. Non si può passare dal cimitero allo stadio in un giorno; da un convoglio di 150 bare a festeggiare un gol. Se il calcio perde 3 o 4 mesi non cambia nulla. Non devono essere pronti a giocare solo i calciatori, ma anche la gente. Per me il calcio è gioia, portare le famiglie e i bambini allo stadio. Aggregazione, festa. Dobbiamo prendere tempo. Le condizioni di sicurezza non bastano”.
Gli interessi in gioco però sono elevati. In Italia oltre 32 milioni di appassionati seguono il calcio, un fenomeno sociale ed economico che dà lavoro a più di 300mila persone generando l’1% del Pil nazionale.
“So che il calcio è un’azienda e ha le sue preoccupazioni, ma sarebbe immorale ridursi a discutere di stipendi quando la gente muore e perde il lavoro. Si è voluto mandare avanti il carrozzone a tutti i costi, tra porte aperte e chiuse, con le conseguenze che sappiamo. Credo che anche gli atteggiamenti dei giocatori dovranno cambiare, sono convinto che diventerà uno sport ancora più bello. Limpido, genuino, trasparente. Forse più terreno, ecco più terreno. Era un mondo che correva veloce, non guardava in faccia nessuno. Ora si è tutto dilatato, anche il pallone cambierà e dovrà avvicinarsi molto di più alla gente”.
Come giudica Matteo Salvini e Barbara D’Urso che pregano in tv.
“Sono per la libertà totale, l’importante è che nessuno ti offenda. Non voglio giudicare, se a qualcuno non sta bene può cambiare canale”.
Mi corregga se sbaglio, ma in questo momento stiamo capendo tutti molto più la forza con cui Gianluca Vialli e Sinisa Mihajlovic stanno giocando la partita più importante?
“Certo, sono d’accordo. Quando le persone accettano il loro momento difficile, mettono tutto quello che possono mettere: anche la loro faccia, la sofferenza pubblicamente. Hanno messo a nudo la propria anima. Il loro è un gesto di grande umanità, che dà forza anche a tutte le altre persone che stanno lottando. Hanno accettato di non avere paura dei propri sentimenti. Chi lo fa è una persona forte e loro lo sono”.
Si sente a suo agio in questo calcio?
“Diciamo che quando sei in mezzo al campo assolutamente sì. Alla base resta sempre una grande passione per il tuo lavoro, accetti situazioni che se rifletti non dovresti accettare. Quest’anno ho detto di no a tutti, soprattutto squadre estere. Perché tutto quello che fa da contorno al campo è sempre più complicato. Negli ultimi anni stanno cercando un po’ tutti di allontanare la gente dalle squadre, invece bisognerebbe tornare un po’ all’antica. Perché il calcio giocato è un toccasana per tutti, la magia di quei novanta minuti ti fa dimenticare ogni problema”.
Un suo collega diceva che oggi accettare la chiamata di qualche presidente è come gettarsi in una piscina senz’acqua.
“C’è un equilibrio tra le motivazioni, gli stimoli, la voglia di rimettersi in discussione. Poi però ti accorgi, quando sei fermo e vedi la tua professione con più distacco, che il calcio resta sempre una materia complicata, ma tante volte bastano due partite fatte bene e recuperi tutte le motivazioni. Agli allenatori dico che non bisogna mai mollare. Si ricomincia sempre. Ti chiamano a mezzanotte, ti dicono ci vediamo domani e provi quella scarica di adrenalina che ti fa dire di sì”.
Si sente comunque la necessità di un calcio sempre più legato ai valori e ai comportamenti.
“Io ho avuto la fortuna di crescere in quel calcio prima a Cremona con Luzzara e Miglioli, poi a Bergamo con Bortolotti, figure straordinarie che mettevano sempre al primo posto la cultura e i comportamenti che devi trasmettere, dando priorità assoluta alla persona, al rapporto umano, alla crescita personale. Si cercava sempre di mettere l’individuo davanti a tutto”.
Una filosofia che rappresenta il dna della Virtus Entella.
“La conosco, Antonio Cassano mi ha raccontato di come la società abbia anche una funzione sociale per il territorio. Credo che quanto sta portando avanti il presidente Gozzi sia molto importante: il senso di responsabilità, l’attenzione anche scolastica versi i ragazzi, l’utilizzare il calcio come cassa di risonanza per la solidarietà. Questo è il calcio che mi piace”.
Mister, usa i social?
“Dei social ho una considerazione un po’ dura. Non li uso per scelta. C’è tanta solitudine. E quando sei solo puoi dare giudizi molto cattivi. Questo di oggi è un livello insostenibile. Secondo me se uno vuole offendere le persone deve metterci la propria faccia, massacrare così chi non può rispondere è gratuito e inopportuno. Se ti mandano 95 messaggi e 5 brutti ti rimangono solo quelli brutti e per questo preferisco evitare”.
Prega molto?
“La fede non la perdi, ma in queste settimane faccio un po’ fatica a concentrarmi. Poi senti il Papa che tocca le corde giuste, rifletti e guardi in alto. Sono momenti della vita. Oggi è arrivato il momento della rivincita, del cuore e dell’anima anche nel calcio, mi creda”.
Un mondo in cui, anche in questo momento, non è raro lo spettacolo di predicatori usi a razzolare in maniera completamente opposto rispetto al contenuto delle loro omelie. Per non parlare di chi pratica con successo il gioco dei quattro cantoni, smentendo al pomeriggio il se stesso della mattina; per reinventarsi una terza alterità al far della sera. Per questo Cesare Prandelli ha le sembianze di un alieno. Lui se ti stringe la mano non ti tradisce. Sono i codici della strada da cui proviene.