di ANTONIO GOZZI
Nell’ultimo editoriale di ‘Piazza Levante’ (leggi qui) ho sottolineato il ruolo geopolitico ed economico che l’Italia può svolgere nell’area del Mediterraneo allargato.
La definizione che si dà normalmente di Mediterraneo allargato è la seguente: “Il Mediterraneo allargato rappresenta oggi il teatro di massimo interesse nazionale nel quale lo stato italiano attua una comune strategia di sicurezza” (R. Domini in: ‘Quaderni strategici 3: Mediterraneo Allargato e le sue implicazioni economiche e geopolitiche per l’Italia,’ CESMAR, 2022). Secondo questa definizione il Mediterraneo allargato sarebbe quella porzione di mare compresa fra le coste mediterranee, il Mar Rosso, il Mar Nero, il Golfo Persico.
Ho sostenuto che l’Italia potrebbe dare un significativo contributo alla stabilizzazione di un’area così complessa del globo perseguendo, al tempo stesso, i suoi interessi nazionali.
Ho anche evidenziato come in questo contesto il nostro Paese potrebbe rinsaldare il suo rapporto con gli USA che si stanno progressivamente disimpegnando anche da questa area del mondo, ma che non possono completamente disinteressarsene. L’Italia ha tutta la capacità e la cultura per svolgere una funzione di ambasciatore “gentile” dei valori dell’occidente di libertà, libero scambio, libertà di impresa e cooperazione con il sud del mondo e al contempo di svolgere un’attività di stabilizzazione e di sicurezza dell’area.
Questi ragionamenti, in un’epoca di rapporti difficili con l’amministrazione Trump, vengono guardati con diffidenza da una parte dello schieramento politico italiano (la sinistra, o gran parte di essa) come frutto di un atteggiamento euroscettico o peggio antieuropeo.
Non è così.
Essere amici dell’Europa non significa però non vederne gli enormi limiti odierni e non criticarne gli errori.
In particolare ho sempre più chiaro in testa che, nel nuovo scenario mondiale, una retorica europeista senza chiarezza su fini e mezzi è del tutto inutile e che l’Italia, sempre di più, deve guardare al di là di un’Europa che, con ogni probabilità, non uscirà dalla sua crisi terminale, afflitta com’è da una pretesa pedagogica che si è autoassegnata, con una presunzione senza limiti e senza la capacità di riconoscere gli errori fatti negli ultimi venti anni; errori che hanno causato una perdita progressiva di economia e di peso.
Penso che le politiche europee nei confronti dell’industria sono state demenziali a partire dal green deal.
Penso che, all’interno di questa crisi, sia inaccettabile che gli altri grandi paesi europei, Francia e Germania in primis, abbiano diritto pieno a declinare interessi nazionali e noi invece no.
Una riflessione non propagandistica su un’Europa politica, che finora non esiste, e sulla specificità di ruolo e di interessi che distinguono l’Italia dagli altri paesi continentali, ci porta a dire che molti di noi si sentono europei in quanto italiani e non viceversa e che gli italiani sono europei in quanto mediterranei.
E in questo contesto, ancora una volta, l’Italia non può fare a meno di un saldo rapporto con gli Stati Uniti d’America.
Qualche tempo fa Lucio Caracciolo su ‘LIMES’ ricordava la figura di Pietro Quaroni (1898-1971), un grande diplomatico italiano che sessanta anni fa aveva pubblicato un saggio sul Patto Atlantico che oggi è ancora di grande attualità.
Quaroni suggeriva di “inserirci in una politica americana periferica” in ambito NATO, evolvendo da “potenza sul mare” a “potenza marittima”. L’idea di Quaroni era che il contesto mediterraneo ci concedesse maggiore libertà di movimento rispetto a Francia e Germania e che, non essendo noi potenza navale, fosse essenziale mantenere un saldissimo rapporto con l’America in quanto (in allora) massima potenza mediterranea, come lo era stata l’Inghilterra quando ancora governava le onde.
Finché “la nostra politica estera ha mantenuto fermo il principio che potevamo prenderci tutte le libertà, salvo quella di metterci contro l’Inghilterra, qualunque sciocchezza abbiamo potuto fare non ha avuto conseguenze gravi; il giorno che ci siamo dimenticati questo principio le conseguenze sono state tali che ce ne ricordiamo ancora oggi. Oggi al posto dell’Inghilterra ci sono gli Stati Uniti ed è necessità primaria della politica italiana andare d’accordo con gli Stati Uniti”. Ergo: “Non bisogna lasciarsi trascinare in nome di una presunta Europa, in una politica europea la quale – sia di fatto – antiamericana”. E poi: noi diciamo troppo spesso che l’Europa è nelle leggi della storia, ma chi le conosce queste leggi della storia?”.
Era il 1966. Molte cose sono cambiate. Gli USA non vogliono più esercitare il ruolo del poliziotto del mondo, l’amministrazione Trump sembra volere soprattutto rinsaldare la fortezza americana per prepararsi al confronto dei prossimi anni con la Cina.
Ma anche oggi l’Italia, a differenza dei paesi atlantici come Francia e Germania, non ha alternative alla propria dimensione mediterranea. Non si tratta solo di una scelta strategica, ma, prima di tutto, di una condizione geografica ineludibile che ci pone al centro di questo mare e ci espone più di altri ai rischi di interruzione di traffici essenziali per la nostra economia. Per questo è e sarà sempre di più strategico il ruolo della nostra Marina militare, la migliore del mediterraneo, che gode di grandissima reputazione anche negli USA. Così come sarà sempre più strategico il ruolo di due grandi aziende partecipate dallo Stato come Fincantieri e Leonardo, che esprimono un’eccellenza mondiale proprio sugli apparati di sicurezza marittimi e non. Così come sarà sempre più strategico il ruolo dell’ENI per la sicurezza energetica del nostro Paese e per il fatto che l’ENI per moltissimo tempo è stata l’Italia in Africa.
Lo stretto di Bab el Mandeb, ad esempio, è sbocco essenziale senza il quale non esiste il Mediterraneo allargato. La sicurezza sarà sempre di più il baricentro dei nostri interessi. Il perdurare di un conflitto in quell’area sarebbe devastante per l’economia italiana e per pezzi importanti della sua industria. Prima della crisi degli Houthi dallo stretto di Bab el Mandeb passavano due terzi delle importazioni e un terzo delle esportazioni del nostro commercio internazionale per un valore di circa 150 miliardi di euro all’anno. Oggi questi flussi si sono ridotti di quasi il 70%.
Il caos mediorientale è quindi una situazione che non possiamo ignorare e che richiede un impegno nostro molto più importante di quello fino ad oggi messo in campo.
Il relativo disimpegno degli USA dalla scena euromediterranea impone all’Italia di assumere un ruolo molto più attivo nella gestione delle crisi nelle aree di nostra influenza e competenza, che sono i Balcani, il Nord Africa e il Medio Oriente. La capacità di farsi ponte diplomatico dell’Occidente verso l’Oriente appartiene alla nostra storia e a una tradizione politica italiana che è sempre riuscita a tenere insieme solidarietà atlantica e amicizia e cooperazione con quelle aree del mondo (si pensi alla politica estera italiana degli anni 80 di Craxi e di Andreotti).
In questo quadro si inserisce l’iniziativa del Piano Mattei assunta dal governo di Giorgia Meloni.
Il Piano Mattei è la prima importante iniziativa di politica estera e di cooperazione internazionale nei confronti dell’Africa assunta dall’Italia negli ultimi anni.
Si tratta di un’iniziativa di grande rilievo, completamente coerente con i fondamentali della politica estera italiana sopra richiamati, che si sta sviluppando con una logica di sistema che coinvolge istituzioni pubbliche e soggetti privati.
Il 2024 è stato l’anno della predisposizione dell’architettura giuridica e degli strumenti finanziari da parte di Cassa Depositi e Prestiti, SACE, SIMEST.
Il 2025 deve essere l’anno della messa a terra delle molte iniziative progettate e nascenti.
In Confindustria ho la delega del Presidente Orsini per il Piano Mattei.
Il mio compito è quello di coinvolgere le imprese private italiane all’interno del Piano Mattei stesso. Le imprese industriali italiane sono già in Africa in gran numero; l’associazione di Confindustria che le riunisce e che si chiama Assafrica ne conta moltissime. Il nostro compito è mettere a sistema questa presenza spontanea e di fare in modo che lo svilupparsi del Piano Mattei aiuti queste imprese già presenti in Africa e ne attiri di nuove.
Vi sono campi essenziali su cui concentrare le sforzo di cooperazione con l’Africa delle imprese private italiane.
Il primo è quello della formazione. Ci sono molti programmi e molte attività già avviate da categorie industriali (l’iniziativa più importante è quella di ANCE in Tunisia per la formazione di oltre 2000 lavoratori nel campo dell’edilizia), ma sono in atto iniziative promosse da Confindustria nazionale (in Egitto per la creazione del primo ITS fuori dall’Italia) e anche da associazioni territoriali di Confindustria (Bergamo in Etiopia, Pordenone/Trieste/Gorizia in Ghana).
Sono allo studio altre importanti iniziative nel campo della formazione sia di personale da far venire in Italia, sia di personale da lasciare nei paesi di origine, a cura di altri settori industriali come la siderurgia e la cantieristica.
La formazione non si deve limitare a profili tecnici ma deve guardare anche a profili di dirigenza e alta dirigenza.
Il ruolo della LUISS e di altre importanti università italiane potrebbe essere di grande rilievo per la formazione manageriale delle future classi dirigenti africane.
Stiamo cercando di mappare e coordinare tutte queste iniziative per far loro raggiungere numeri importanti e per renderle sempre più efficaci.
Il secondo campo di attività importantissimo è quello di sostegno alla realizzazione in Africa di grandi infrastrutture volte a sostenere e migliorare la qualità di vita e l’economia del continente.
L’Italia, come ha dimostrato il recente incontro a Roma organizzato dalla struttura di missione presso la Presidenza del Consiglio “The Mattei Plan for Africa and the EU Global Gateway: a common effort whit the African Continent” e la presenza di attori africani di primo livello (ministri di Zambia, Tanzania, Angola e RDC del Congo) sta lavorando attivamente sul progetto della grande infrastruttura rappresentata del cosidetto “corridoio di Lobito”. Si tratta di una linea ferroviaria di 1600 km che collega il porto angolano di Lobito alla Repubblica Democratica del Congo e allo Zambia, e che ha visto negli ultimi anni un forte sostegno dell’UE e degli Stati Uniti, un’infrastruttura strategica intorno alla quale possono svilupparsi moltissimi progetti minori di grande interesse anche per l’Italia.
C’è il grande tema dell’energia, che vede l’Italia in prima fila con la realizzazione del cavo di collegamento elettrico tra Sicilia e Tunisia (Elmed) e la possibilità da parte dell’industria italiana, specie quella energivora, di andare a realizzare in Tunisia significativi investimenti in energie rinnovabili (fotovoltaico ed eolico) destinate al mercato interno e all’esportazione verso l’Italia.
C’è infine la grande questione agricola, vitale per il futuro dell’Africa, che vede impegnate molte aziende italiane su progetti di grande rilievo, primo fra tutti l’intervento di Bonifiche in Algeria.
Molto lavoro da fare, molte idee e progetti da concretizzare. La credibilità dell’Italia è messa alla prova, non possiamo fallire.