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di MATTEO MUZIO *
Le nomine di Donald Trump alle principali cariche del nuovo governo federale americano sono sin da subito apparse molto controverse. Non soltanto per le idee esposte soprattutto da alcuni ex democratici come il ministro della salute in pectore Robert Kennedy Junior e la candidata a sovrintendere alle agenzie di intelligence Tulsi Gabbard, che testimoniano come il movimento trumpiano sia ormai andato oltre i confini tradizionali del conservatorismo statunitense per diventare compiutamente populista a tutto tondo, ma anche per controversie che riguardano quasi tutti loro. Anzi, le eccezioni sono quelle scelte come il senatore Marco Rubio, futuro segretario di Stato o Scott Bessent, scelto per guidare il dipartimento del Tesoro, che verranno confermati con facilità. Caso unico invece è quello del candidato a guidare il dipartimento della difesa: non si tratta né di un politico, né di un ex militare di altissimo livello come l’attuale guida del Pentagono, il generale Lloyd Austin, bensì del conduttore di Fox News Pete Hegseth.
Hegseth non ha nemmeno un’esperienza manageriale di livello che giustificherebbe la sua scelta per gestire la più ampia voce di spesa del governo federale americano, dove peraltro la tenuta dei conti è un problema sentito: sono oltre sei anni che l’intero apparato non passa il processo di audit e verifica che serve a controllare che i bilanci siano in ordine e non ci siano costi esorbitanti poco giustificabili. La principale qualità di Hegseth, che comunque ha un’esperienza di combattimento come ufficiale in Iraq e Afghanistan nelle fila della Guardia Nazionale del Minnesota, è la continua disponibilità a difendere l’operato di Trump anche nei quattro anni passati da leader informale dell’opposizione repubblicana.
Non solo: Hegseth è attivo nel movimento repubblicano che cerca di politicizzare l’esercito, rendendolo sempre più una sorta di milizia conservatrice di “guerrieri”, molto simile a un’armata di crociati.
E infatti uno dei suoi tatuaggi recita proprio uno dei motti di chi nel Medioevo cercava di rendere cristiana la Terrasanta: Deus Vult. Tra le sue idee c’è anche quella di non utilizzare più le donne in combattimento, come espresso nel suo ultimo libro, The War on Warriors.
E fin qui siamo nel campo della controversia ideologica, anche quando l’Idaho Capital Sun, piccolo giornale locale, ha scoperto i suoi legami con una congregazione cristiana controversa, la Christ Church, nota per le sue idee nazionaliste e teocratiche.
C’è però di più: diverse testimonianze parlano di una brutta sua attitudine nei confronti delle donne, con accuse circostanziate di molestie e tentativi di stupro, accompagnate da vicende giudiziarie chiuse con patteggiamenti. C’è anche un problema con l’alcool, da lui apertamente ammesso, con tanto di promessa di “darci un taglio”.
Fino a qualche anno fa queste accuse sarebbero state più che sufficienti anche per affondare la candidatura a segretario alla difesa persino per un eroe di guerra come il generale David Petraeus, figurarsi un controverso personaggio televisivo.
L’argomento trumpiano di difesa però è l’attacco: così i senatori che si oppongono alla nomina, tra cui la veterana dell’Iowa Joni Ernst, peraltro con un passato da vittima di stupro, sono stati oggetto di una coordinata campagna da parte degli alleati di Trump, compresa la procuratrice generale dell’Iowa Brenna Bird che ha firmato un editoriale sul magazine trumpiano Breitbart puntando il dito contro “quei politici di Washington” che non ascoltano i loro elettori. Minaccia velata alla senatrice che svela quale potrebbe essere nel prossimo futuro il piano di Donald Trump per colpire chi si oppone a lui: trovare candidati alle primarie, finanziati da Elon Musk, che caccino chi osa soltanto opporsi al suo volere. Argomento che però è un’arma a doppio taglio, come testimonia la campagna di pressione attuata nel 2017 contro il senatore dell’Arizona John McCain affinché votasse per cancellare la riforma sanitaria voluta da Barack Obama, finita con il diretto interessato che fornisce il voto decisivo per affossare quel tentativo. Poi ci sono almeno tre senatori piuttosto impermeabili agli attacchi: soprattutto Susan Collins del Maine, che deve lottare per la rielezione nel 2026 in uno stato che ha votato nel 2024 per Kamala Harris; quindi, ha poca convenienza ad allinearsi a Trump e a non sembrare moderata e lo stesso vale per Lisa Murkowski dell’Alaska, che già in passato ha sconfitto due sfidanti alla sua destra con l’aiuto dei voti democratici. Peraltro, il suo mandato di sei anni scade nel lontano 2028. Infine, c’è il capogruppo uscente Mitch McConnell: stretto alleato di Trump nel suo primo mandato, si è trasformato in un suo duro critico che lo ritiene “politicamente e moralmente responsabile” dell’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021. Nel suo caso le pressioni non funzionano perché, a ottantaquattro anni, probabilmente questo è il suo ultimo mandato e ha già dichiarato che la sua missione è quella di combattere le spinte isolazioniste del suo partito. Tre voti persi su 53 totali. Un altro e la nomina di Hegseth fallirebbe in modo spettacolare. A questo punto ci sono le audizioni nella commissione difesa a gennaio. Lì si vedrà se c’è un modo di superare le preoccupazioni. O se questa scelta è stata fatta da Trump soltanto per stanare i suoi critici e farli fuori successivamente.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)